Uno dei casi giudiziari degli ultimi anni riguardante cittadini albanesi in Italia è diventato abbastanza famoso nella penisola, mentre non è molto noto in Albania. Parliamo dell’uomo che è stato accusato di aver praticato sesso orale al figlio di cinque anni. La contestazione della Procura era quella di violenza sessuale aggravata “perché in più occasioni abusando della sua autorità di padre, del divario di età e dell’immaturità personologica del figlio … correlata alla sua minore età e con violenza, abbassandogli repentinamente i pantaloni e gli slip, costringeva ed induceva costui a subire plurimi atti sessuali, consistiti in palpeggiamenti alle parti intime ed in rapporti orali. Con l’aggravante del fatto commesso su minore di anni 10”. Tale reato, che è punito sulla base degli articoli 609 bis, ter e quater del codice penale, prevede una pena che può arrivare a quattordici anni di carcere nel caso in cui la vittima abbia meno di dieci anni.
Occorre sottolineare che i familiari dell’uomo fin da subito mostravano un sentimento di stupore verso un’accusa del genere e lo stesso bambino non appariva provare disappunto ma anzi cercava il padre quando questo era in carcere. Anche la moglie venne processata con le stesse accuse, per non aver vigilato ed essere stata quindi in qualche modo complice, ma venne poi assolta.
Il fatto è avvenuto nel 2010 a Reggio Emilia, ma il processo si è concluso nel 2019. Come è andata all’imputato? Riassumendo, nel primo grado di giudizio il Tribunale di Reggio Emilia ha assolto l’uomo con sentenza del 21 novembre 2012. In secondo grado la Corte di appello di Bologna il 19 aprile 2017 ha confermato l’assoluzione. In terzo grado la Corte di cassazione a Roma il 29 gennaio 2018 ha annullato la sentenza della Corte di appello di Bologna rinviando ad altra sezione della stessa corte di appello per un nuovo giudizio. Nel nuovo giudizio di secondo grado il 16 maggio 2019 la Corte di appello di Bologna questa volta ha condannato definitivamente l’uomo a due anni e otto mesi di reclusione (oltre al risarcimento del danno da versare al figlio).
Il caso, come detto, ha suscitato scalpore in Italia anche tra i non addetti ai lavori, ne hanno parlato vari media e ha aperto tantissime discussioni. Il processo è stato oggetto di anche di vari articoli specialistici ed è anche stato oggetto di analisi in lezioni tenute presso la Scuola della magistratura italiana.
Ma vediamo quali fatti sono statti concretamente provati nel procedimento penale.
L’addetta alla cucina dell’asilo nido nel quale era inserito il bambino ha spiegato le circostanze della scoperta che ha portato al processo. In un contesto giocoso (preparazione di una torta), in una atmosfera serena e priva di tensione, mentre uno dei bambini riferiva di una sua birichinata consistente nel girare nudo per casa, che avrebbe suscitato l’ilarità dei genitori, con altrettanta spontaneità il bambino albanese aveva detto riferendosi al padre “a me me lo ciuccia”. Il bambino aveva poi simulato il gesto prendendo in mano un cucchiaio e mettendoselo in bocca. La frase aveva naturalmente scatenato la preoccupazione e la curiosità dell’ausiliaria che aveva chiamato una collega per avere sostegno nel cercare di capire a cosa esattamente facesse riferimento il bambino. La frase era stata quindi ripetuta: “me lo ciuccia come un biberon” seguita dal gesto di “succhiare” e “tirare su e giù” la coda del cucchiaio senza peraltro tenere in bocca l’oggetto più di tanto.
Pochi giorni dopo l’acquisizione della notizia di reato veniva disposta dal pubblico ministero una registrazione audiovisiva interna all’abitazione dell’imputato. In essa si può vedere il padre ed il figlio sdraiati sul letto matrimoniale di una camera; l’adulto fa zapping in televisione e ad un certo punto pare che tocchi fugacemente il bambino nella zona genitale. L’uomo veniva quindi arrestato.
Veniva sentita la sorella diciassettenne del bambino, la quale faceva presente che era un gesto consueto del padre quello di baciare (non succhiare) l’organo genitale del figlio, che non mostrava alcun problema: una pratica considerata normale nella loro famiglia, fatta per affetto verso i bimbi maschi fino ai quattro, cinque anni da parte dei padri e dei nonni maschi ma vietata alle femmine della famiglia.
Veniva prodotto dalla difesa dell’imputato un documento, privo di autenticazione ufficiale ma apparentemente proveniente da un ufficio pubblico albanese, in cui si afferma che nelle zone rurali della prefettura di Vlore esisterebbe ancora la tradizione per cui un padre manifesta affetto per il figlio accarezzandolo nelle parti intime “esprimendo così la gloria della prosperità e continuità della generazione”.
Pochi giorni dopo l’arresto dell’uomo venivano disposte intercettazioni ambientali nella sala di ascolto del carcere di Reggio Emilia, intercettazioni che mostrano come egli, parlando con i congiunti, difenda la propria innocenza negando di aver compiuto atti dalla valenza anche minimamente sessuale e facendo presente come si trattasse degli stessi gesti di affetto che avevano avuto con lui il padre ed il nonno. Dice, riferendosi al suo pene: “a me lo tiravano”. E a tal proposito, ancora intercettato in carcere mentre parla con la moglie, ricorda un episodio simile avvenuto sempre sul figlio, in cui un’altra persona “gliel’ha tirato così quando è venuto e il bimbo si è messo a piangere”. Parla poi, sembra di capire, di una conversazione avuta con un altro detenuto, romeno: il padre del romeno chiedeva al figlio il perché l’albanese fosse in carcere e lui gli rispondeva perché aveva baciato il figlio in quel modo. Il padre del romeno allora diceva al figlio “anch’io ti ho baciato così. Noi i figli li baciamo così”, nei Balcani per il maschio si fa così”. L’imputato in generale non nega il fatto contestato ma non capisce come gli possa essere rivolta un’accusa di pedofilia per un bacio di pochi secondi al pene del figlio e si mostra stupito delle leggi italiane: “le leggi che sono qua, dio santo!”. Sempre sotto intercettazione l’imputato viene sentito parlare di una conversazione che avrebbe avuto con una persona che gli ribadiva la gravità del fatto per “aver ciucciato” il pene del figlio. Al che l’imputato avrebbe risposto: “ma guarda che non era ciuccio, ciuccio significa quando dura dei minuti, io invece l’ho soltanto baciato” e, parlando della normalità del gesto, “anche in tutto il Ducat [località dell’Albania] diranno la stessa cosa”. L’uomo continua, insistendo di non essere pedofilo, malato o pazzo: “Quello che ho fatto è perché… è perché così faceva anche mio padre. Noi eravamo cinque figli… Eravamo cinque maschi e mio padre…”. Alla domanda “fino a che età ti ha baciato?” l’imputato rispondeva: “considera che avevo circa otto anni, che io ricordi”. Parla del fatto che il bambino possa essere baciato allo stesso modo dai parenti, cosa che viene considerata normale. Dice anche: “se è così come dite voi, che io possa aver fatto – chiedo scusa del termine – un “bocchino”… Ma il “bocchino” non si fa in cinque secondi”. Un altro albanese, mentre parla con l’imputato, dice che per le consuetudini albanesi questi gesti sono normali e che “se tu fossi stato nel tuo paese non saresti stato perseguitato”.
Il padre del bambino non si dà pace per quello che lui ritiene un gesto di assoluta irrilevanza giuridica e morale, per il quale in carcere lo considerano un pedofilo e lo minacciano.
Tutti concordano che l’atteggiamento del bambino, mostrato dalle riprese audiovisive, era di assoluta indifferenza al gesto del padre, continuava anche a mangiare dal biberon.
Guardando alla valutazione giuridica che hanno dato i vari giudici che si sono occupati del caso, si può fare questa sintesi.
Il tribunale di Reggio Emilia afferma, dal punto di vista materiale, che non possono esserci dubbi che “nel nostro ordinamento il contatto con l’organo genitale maschile, il bacio o ancor più l’inserimento in bocca del pene integri un atto sessuale in quanto invasivo della sfera sessuale, e integrante un rapporto del corpo dell’agente con parti del corpo della vittima naturalmente idonee a produrre stimolazione sessuale”. Quanto però all’aspetto psicologico, mancherebbe nella fattispecie qualsiasi “‘elemento aggiuntivo rispetto alla materialità del fatto che induca a pensare che la condotta dell’imputato, nato e cresciuto in un diverso contesto culturale, fosse accompagnata dalla coscienza del carattere oggettivamente sessuale secondo la nostra cultura di riferimento, del bacio e tanto più del succhiotto sul pene del bambino anche quando effettuato dal genitore, per cui detta condotta integra di regola il reato di violenza sessuale salva la ricorrenza di specifiche e univoche circostanze di contorno idonee a provare l’assenza di qualsivoglia stimolo sessuale alla base del comportamento”. In altre parole nel fatto dell’imputato ci sarebbe l’elemento materiale, ma mancherebbe quello psicologico. Il punto centrale che porta questo tribunale all’assoluzione è, in altre parole, la diversa cultura dell’imputato, intesa ovviamente non come istruzione derivante dagli studi compiuti, ma in sostanza come insieme dei valori giuridici, morali, sociali e consuetudinari che gli appartengono in quanto proveniente da un altro paese o appartenente ad un altro popolo.
La Corte di appello di Bologna (nel suo primo giudizio) ha di nuovo assolto l’uomo, ma ragionando diversamente.
Ha ritenuto che la condotta messa in atto dall’uomo si concretasse in meri ‘‘gesti di affetto e di orgoglio paterno nei confronti del figlio maschio, assolutamente privi di qualsiasi implicazione di carattere sessuale e indicati come rispondenti a tradizioni di zone rurali interne dell’Albania, pese di origine degli imputati”. La Corte di appello esclude quindi sia l’elemento soggettivo – quindi il dolo – non essendo gli atti mirati a soddisfare ‘‘qualche forma di concupiscenza sessuale nei confronti del minore”, che l’elemento oggettivo, ritenendo che “l’atto commesso dall’imputato non ha in sé alcun intrinseco significato sessuale, né alcuna obiettiva attitudine offensiva dell’altrui sfera sessuale, risultando esso una commistione di abitudini del gruppo sociale di appartenenza con una chiara manifestazione ludica, ultra affettiva e dimostrativa dell’orgoglio per l’unico figlio maschio”.
In altre parole mentre il giudice di primo grado esclude soltanto l’elemento psicologico del reato, quello di secondo grado esclude elemento psicologico ed elemento materiale: nell’uomo non c’è volontà di commettere il reato ma nemmeno la sua condotta ha valenza illecita, in quanto non può essere considerata come “sessuale”.
La Corte di cassazione di Roma, supremo organo giurisdizionale in Italia, ha ritenuto invece che “la dichiarata ignoranza da parte degli imputati e della loro famiglia, circa l’offensività della condotta posta in essere ai danni del figlio minore, così come l’ignoranza sull’esistenza della norma penale incriminatrice di essa non appare idonea ad integrare una causa di non colpevolezza degli imputati stessi che oltre a risultare ben integrati nel tessuto sociale ove vivevano e lavoravano da anni (tanto che i fatti emergono nel contesto scolastico ove il proprio figlio era collocato), allegano a propria discolpa una ignoranza che non assumerebbe rilevanza anche nel paese di origine, ove i medesimi fatti risultano sanzionati penalmente”. La corte di cassazione accoglie quindi il ricorso della procura generale presso la corte di appello di Bologna, valutando che “tale presunta tradizione sarebbe in contrasto anche con le prescrizioni del codice penale albanese (artt. 100 e ss.), risulterebbe smentita finanche in Albania (risultando, anche a volere accedere alla tesi difensiva, limitata solo alle zone rurali, e limitata alla mera carezza bene-augurale) e rispetto alla quale non poteva essere neppure ammessa una non consapevolezza della illiceità da parte degli imputati, che erano da tempo residenti in Italia e non potevano ignorarne le leggi, se non inescusabilmente”. Tra l’altro, anche relativamente al profilo oggettivo, secondo la Corte di cassazione, la Corte di appello non avrebbe valutato le prove emerse, in particolare i filmati acquisiti e le testimonianze delle insegnanti, considerate pienamente attendibili in primo grado, dalle quali emerge come il bambino avrebbe testualmente descritto la condotta del padre affermando che costui ‘‘gli succhiava il pisellino come un biberon” e avrebbe mimato altresì la condotta mettendosi in bocca un cucchiaino e ‘‘facendo su e giù” con lo stesso. Quindi, riassumendo, l’imputato non poteva invocare a sua discolpa né la carenza di offensività sessuale della sua azione, né l‘ignoranza della legge penale. Legge penale che peraltro anche in Albania – come rileva la Corte di cassazione – vieta atti sessuali con i bambini (anche se in realtà la Corte non dice nulla su come atti simili a quelli compiuti a Reggio Emilia sarebbero valutati in Albania). Per queste ragioni il supremo organo giurisdizionale italiano ha quindi rinviato alla Corte di appello di Bologna il processo, affinché venisse celebrato un nuovo giudizio di secondo grado presso un’altra sezione della stessa corte, questa volta però sulla base delle indicazioni date dalla Cassazione fatta con la sentenza di rinvio. In altre parole la Corte di Bologna a questo punto non poteva discostarsi da tali indicazioni: di fatto la corte di appello, come succede per legge nei casi di rinvio, è vincolata ad una determinata impostazione dettata da una corte superiore (la Cassazione, appunto). Ed infatti la Corte di appello di Bologna ha condannato definitivamente a due anni e otto mesi l’uomo.
Ma quali sono i principi espressi da questa importante sentenza (la numero 29613/2018 della Cassazione) validi per i cosiddetti reati culturalmente orientati (o motivati), cioè quei reati che possono essere commessi da un soggetto, di solito straniero, che agisce seguendo la sua diversa cultura di provenienza?
Ecco i criteri di valutazione formulati dalla Cassazione (e già suggeriti da Fabio Basile, professore di diritto penale dell’università di Milano) che tutti i giudici italiani dovrebbero tener presenti nella valutazione di questo tipo di reati (usando quello che è stato chiamato “test culturale”):
1) natura del bene offeso. Secondo questo principio la “difesa culturale” non assume alcuna idoneità ad esonerare l’imputato da responsabilità qualora il reato comporti gravi offese a beni fondamentali della persona (creando una sorta di sbarramento invalicabile), quali vita, incolumità, libertà di autodeterminazione in ambito sessuale ecc… Si guarda quindi al bene giuridico offeso ed al grado di offesa al medesimo;
2) natura della norma culturale. Va valutato se la norma in adesione della quale è stato commesso il reato trovi un riscontro anche in una corrispondente norma di diritto nell’ordinamento giuridico del paese di provenienza dell’immigrato. In questo caso si dovrà sicuramente ritenere tale circostanza rilevante quanto alla consapevolezza della antigiuridicità della condotta e quindi alla colpevolezza del fatto commesso nell’imputato. Un altro parametro relativo a questo aspetto riguarda il carattere vincolante della norma culturale straniera: occorre valutare cioè se essa è rispettata in modo omogeneo da tutti i membri del gruppo culturale o, piuttosto, risulta desueta e poco diffusa anche in quel contesto;
3) grado di inserimento dell’immigrato nella cultura del paese di arrivo e grado di adesione alla cultura del paese di origine. Risulta ovvio che la credibilità di una difesa basata sulla cultura di origine sia inversalmente proporzionale al grado di integrazione dell’imputato nella cultura del paese di fronte ai cui giudici è chiamato a rispondere del reato.
Un altro onere generale che dovrebbero porsi i giudici è quello di “tradurre” i comportamenti sotto esame in “equivalenti culturali”: il giudice dovrebbe “tradurre” il significato del comportamento tra le due culture. Per intenderci, per una donna musulmana togliersi il velo avrebbe lo stesso significato sociale che ha per un’italiana togliersi la camicetta.
Ovviamente, come accennato, l'”orientamento culturale” dei reati non basta che sia proclamato, ma deve essere provato. Quindi tradizioni e consuetudini culturali, se invocati dalla difesa, devono essere documentati. Nel caso di Reggio Emilia la Cassazione giudica che questo non è avvenuto: la difesa si è basata su mere dichiarazioni degli imputati e dei loro congiunti e di una dichiarazione della prefettura di Vlore che però non è stata presentata corredata di alcuna certificazione di autenticità. Anzi, dall’istruttoria emergeva invece che “non di mere occasionali carezze si trattava, ma di vere e proprie fellatio”.
Non si ha notizia di molti casi giudiziari analoghi, anche all’estero. Negli Stati Uniti ci sono stati sicuramente almeno due processi per fatti simili: in un caso compiuti dalla madre, nell’altro dal del padre. Entrambi sono stati assolti, però era stato provato che si trattasse soltanto di baci anziché di succhiotti ed i bambini erano anche molto più piccoli (uno non aveva più di un anno, l’altro un anno e mezzo), cosicché non si è valutata una valenza sessuale negli episodi.
Un caso giudiziario simile riguardante albanesi ha avuto invece per protagonista una bambina: nel 1989 in Texas due genitori originari dell’Albania persero la potestà genitoriale perché il padre fu accusato di aver molestato la figlia per averne più volte accarezzato il pube pubblicamente, durante un evento sportivo della scuola. L’esperto culturale testimoniò che in Albania quello era un modo di mostrare affetto. Nonostante ciò i bambini vennero dati in affidamento e poi adottati.
Vari giuristi e antropologi hanno approfondito accademicamente l’argomento dell’usanza del bacio al pene del bambino. La costituzionalista Ilenia Ruggiu dell’università di Cagliari (ad esempio nell’articolo “Omnia munda mundis. La pratica culturale dell’„omaggio al pene” del bambino: uno studio per la cultural defense”) ha scritto pagine molto interessanti sul tema: l’usanza del cosiddetto “omaggio al pene” – ma chi la pratica non la chiama così – è una manifestazione di orgoglio genitoriale verso la mascolinità del figlio. È diffusa in varie culture: Telugu (India), Afghanistan, Nuova Guinea, Hawaii, Manchu (Cina), Cambogia, Vietnam, Corea, Thailandia, Rom, Turchia, Albania. Si può notare, incidentalmente, che, a parte quella albanese, nessuna di queste culture è di origine occidentale.
Proprio riguardo all’Albania, pare che non ci siano studi accademici su questo argomento, almeno noti a livello internazionale. Se questi studi esistessero e fossero stati conosciuti all’estero, forse l’esito del processo per i fatti di Reggio Emilia avrebbe potuto essere diverso, almeno parzialmente. Ed in effetti gli organi giudiziari che se ne sono occupati avrebbero potuto autonomamente, d’ufficio, indagare di più questo aspetto, ovvero della reale esistenza di quella tradizione, visto che viene ritenuto rilevante, e non considerare insufficienti le prove sul punto portate dalla difesa. Eventualmente avrebbe potuto essere nominato dal giudice come perito un esperto culturale (ad esempio un antropologo competente sulle tradizioni sociali albanesi). Nell’impostazione “culturalmente orientata” data dalla Cassazione, in questo senso questa tradizione, se esistesse, potrebbe essere assunta come parametro di giudizio.
Vladimir Kosturi, presidente di Illyria, associazione albanese in Italia (che ha sempre sostenuto le ragioni del padre, anche con diversi sit-in), in un’intervista rilasciata a Radio Radicale, in relazione al caso di Reggio Emilia ha dichiarato, riportando l’opinione della comunità albanese, che “la nostra tradizione è anche di baciare i nostri figli nelle parti intime del corpo”, in sostanza nello spirito di una manifestazione di amore più naturale e meno fredda tra genitori e figli rispetto ad altre culture, dove questa fisicità si è persa.
Quanto all’Italia, la Ruggiu, citando l’antropologo Antonino Colajanni, riferisce che “a livello fisico, in diverse zone, soprattutto del Sud Italia, era ed è ancora in uso che le madri diano un bacio sul pene del bambino. Ad esempio, nella Piana degli albanesi [così chiamata per la storica presenza di italo-albanesi] in Sicilia, il bacio sul pene dell’infante dato dalla madre poteva nascere da un moto di orgoglio, espletato per affermare «tu sei un uomo»”.
In generale tutti si possono porre interrogativi riguardo alla natura sessuale di certi gesti. Molti genitori italiani e probabilmente di tutto il mondo fanno foto al figlio neonato nudo o lo baciano sulle natiche. A chi verrebbe in mente di considerare di natura sessuale questi gesti? Ed il bacio? Quanti significati può assumere? Sicuramente non per forza di natura sessuale. Ed il bacio sulla bocca tra uomini? In Italia è considerata una pratica omosessuale, ma non così in altre nazioni.
La vicenda di Reggio Emilia, come detto, ha creato un moto di stupore nell’opinione pubblica italiana che ha avuto conoscenza della notizia. Molti italiani non hanno creduto nemmeno che possa esistere al giorno d’oggi un’usanza del genere in un popolo occidentale ed hanno pensato ad una bugia detta dai familiari per fornire una giustificazione all’uomo.
Chiudo con un aneddoto personale. Io stesso, nonostante una lunga esperienza come avvocato difensore di stranieri in Italia in processi penali, non avevo mai avuto conoscenza di questa presunta usanza in Albania e, relativamente al caso di Reggio Emilia, ero tra quelli che credevano che rientrasse tra le fake news “ad uso processuale” che talvolta testimoni interessati raccontano ai giudici per discolpare propri amici o parenti in processi di questo tipo.
Così un giorno, con tono incredulo per quella che pensavo essere un’invenzione, durante una chiacchierata nel viaggio in auto per andare ad un tribunale insieme ad uno dei miei tanti clienti albanesi ed a suo figlio, ho chiesto delucidazioni in merito: “Senti, X, sai che in un processo penale un tuo connazionale albanese accusato di aver fatto sesso orale al suo bambino ha dichiarato che in Albania è un’usanza normale per i padri baciare il pene dei figli piccoli?” Questo mio cliente albanese, un uomo equilibrato che vive e lavora da molti anni in Italia (e senza ovviamente alcun interesse diretto nel fatto di Reggio Emilia), mi ha risposto molto serenamente, con suo figlio maggiorenne che ascoltava il nostro dialogo dal sedile posteriore dell’auto.
Mi ha detto questo: “È vero. Io ho baciato il pene di mio figlio fino a quando aveva otto anni”.