Lapo l’impunito: ancora samba, bamba e mal di schiena

Caso tutto sommato banale: Lapo Elkann ne fa una delle sue a New York con escort e coca, poi simula una sequestro per avere dalla famiglia 10000 euro per pagare il conto, in un primo tempo viene arrestato, poi la procura USA fa cadere le accuse per simulazione di reato. Fin qui niente degno di nota. Effettivamente proprio niente no, ma Lapo ci ha abituato a cose simili. Succede però che il Corriere della Sera dia la notizia on line e un addetto ai social del giornale condivide il relativo post accompagnandolo con il seguente sontuoso commento: “Che cazzo. Tutto sto casino per 10.000€? Ma non poteva farle/fargli fare una bonifico da papino?” Da lì seguiranno le scuse del Corriere.

Qual è la notizia che più turba? La marachella di quel monello di Lapo? L’archiviazione da parte della procura newyorchese? L’errore dell’anonimo social media manager? No: sono le scuse del Corriere.

Perché scusarsi? Ma una direzione con un po’ di schiena dritta no? In quel commento del Corriere c’è una riflessione basica ma più che verosimile: l’ipocrisia di tanti media è da tanti anni uno dei tanti tappeti rossi per gli Agnelli. Ma la verità non è mai sbagliata. L’attuale pecora nera degli Agnelli ha soltanto la fortuna di appartenere ad una famiglia ricchissima: tante persone che hanno i suoi stessi problemi (di psichiatria e di drogheria) passano per risolverli qualche anno in carcere, non qualche minuto. Perché, premesso che anche la samba con i trans credo che costicchi, para bailar la bamba o hai tanti soldi o li vai a rubare (o ne hai tantissimi ma non ti bastano lo stesso e allora fingi di essere stato sequestrato per estorcerne altri alla tua famiglia). La differenza tra loro e lui è però anche un’altra. I drogati di strada sono per lo più visti come gentaglia da evitare: ti metti a parlare con un drogato magari pure truffaldino? Giusto gli avvocati lo fanno perché devono. Mentre invece se il tossico che delinque è un Agnelli, statene certi, al prossimo giro verrà ancora eletto arbiter elegantiarum dai giornalisti più cool e chic, maestro di un’eleganza fatta di capi d’abbigliamento con fogge, colori e accostamenti per pensare la quale sembrerebbero adatti i più immaginifici allucinogeni degli anni sessanta piuttosto che la solita polverina magica di Lapo. In realtà però un modo più igienico per imitare l’estetica lapiana esiste: 1) comprare alcuni stock di vestiario da rimanenze di magazzino rigorosamente fuori moda almeno da trent’anni, recuperare il guardaroba maschile degli ospiti di un matrimonio zigano, saccheggiare un cassonetto della Caritas, scegliere qualche pezzo in negozi specializzati in abiti da lavoro (ad esempio smoking da presentatore di circo, tuta da apicoltore, costume da gondoliere, livrea da portiere di vecchi alberghi americani a cinque stelle, completo da musicisti di orchestra di liscio per la serata dell’ultimo dell’anno, mimetica da soldato dei corpi speciali, meglio ancora se da contractor che è stato scartato alla visita di leva, ecc…) e infine scambiarsi i vestiti con qualche amico trans (fortunello Lapo, anche qui è avvantaggiato); 2) buttare tutto in un mucchio; 3) bendarsi e prendere a caso. Quello che viene fuori è un perfetto outfit in stile Lapo. Lo stesso stile che i giornali al grido di “al Lapo! Al Lapo!” fanno diventare haute couture. Ma – finisco riallacciandomi all’inizio – come per il cervello di certi tossicodipendenti, così anche per le schiene di alcuni giornalisti e direttori non sembra esistere cura.

Neonato trovato morto nella culla termica di una chiesa a Bari: responsabile la madre o il parroco?

Neonato trovato morto nella culla termica di una chiesa a Bari: responsabile la madre o il parroco?

È uno di quei casi in cui, anche se il colpevole sarà uno soltanto, la sconfitta è di tutti.
Il fatto nei suoi elementi principali è noto: nei primissimi giorni del 2025 il corpicino senza vita di un neonato è stato trovato dentro una culla termica nella chiesa di San Giovanni Battista a Bari. Le culle termiche neonatali, dette anche “culle per la vita” sono strutture predisposte per permettere alle mamme che intendono lasciare il proprio bambino in un luogo sicuro, dove verrà prontamente soccorso e accudito, senza essere viste ed in modo assolutamente anonimo. Lo scopo è quello di evitare che mamme che non vogliono far sapere a nessuno di avere avuto un figlio lo abbandonino per strada o peggio.
La normativa italiana (art. 30 d.p.r. n. 396/2000) prevede che una madre possa partorire in ospedale in totale anonimato: il nome della madre rimarrà per sempre segreto e nell’atto di nascita del bambino verrà scritto che la madre non vuole essere nominata. Questo anche se il parto avviene in ospedale. Purtroppo alcune madri, per diverse ragioni, non sopportano che nessuno, neppure il personale ospedaliero, venga a conoscenza della loro gravidanza.
Nessuna legge invece prende in considerazione espressamente le “culle per la vita”, che poi non sono altro la versione moderna delle “ruote degli esposti“.

Questo strumento nasce ufficialmente nel 1188, esattamente un secolo dopo arriva in Italia e viene utilizzato fino a quando il fascismo lo vieta – pur mantenendo il dovere di assistenza degli “esposti” – con l’art. 16 r.d. n. 2900/1923: “in tutti i brefotrofi ed istituti congeneri e nelle case di ricezione, mantenute dalle Provincie prive di brefotrofi, l’ammissione degli infanti esposti ha luogo per consegna diretta, escluso il sistema delle ruote”. Questa norma sarà abrogata dall’art. 1 all. 1 parte 36 d.lgs. n. 212/2010, ma già nel 1992 vennero messe in funzione strutture simili alle culle, i “cassonetti per la vita“.

Le culle per la vita moderne dovrebbero garantire confort momentaneo al neonato ed un sistema di immediata comunicazione della collocazione del bambino nella culla. Ma a Bari qualcosa pare essere andato storto. La situazione non è ancora chiara e le indagini sono in corso. Qualche media in relazione al decesso del bambino ha puntato il dito contro l’anonima madre (dando per verosimile che sia stata la madre a portare il bimbo alla culla), di cui ciascuno può dare un proprio giudizio morale, ma la cui responsabilità penale sul punto pare in realtà al momento non ipotizzabile, ovviamente a meno che la morte non sia dipesa dal comportamento precedente della donna, che poi abbia abbandonato il figlio già morto nella culla termica, oppure che il sistema di chiusura del vano della culla non sia stato azionato dalla stessa (così non attivando la comunicazione del deposito del bambino nella culla).

Sempre stando a quanto riferito dai media, la culla sarebbe stata dotata di un sistema di comunicazione collegato telefonicamente al cellulare del parroco della chiesa. Questi avrebbe riferito di un generico black out elettrico che qualche giorno prima avrebbe interessato la chiesa, per tentare di ricolvere il quale sarebbero intervenuti i tecnici che non sarebbero però riusciti a risolvere il problema: per tale ragione la telefonata di avviso di utilizzoa dela culla non sarebbe partita. Peraltro qualcuno avrebbe riferito che il sistema si era già mostrato difettoso in passato.

Orbene, al netto di eventuali imprecisioni nella ricostruzione dei fatti e tenendo presente che la questione rientra in un ambito che è estremamente dibattuto giuridicamente, sia dal punto di vista dottrinario che giurisprdenziale, si ritiene che possa emergere la responsabilità del parroco sulla base di quanto si spiega di seguito in maniera riassuntiva e considerata la natura del presente articolo.

Il reato di abbandono di minore aggravato da morte non può essere imputato alla madre, in quanto questa non ha messo un atto un reale atto di abbandono, ma ha affidato suo figlio ad una struttura da lei ritenuta (erroneamente, ma per errore non dovuto a sua colpa) idonea ad accoglierlo. Non è nota giurisprudenza che consideri situazioni identiche a quella del fatto di Bari, ma è interessante una sentenza su un caso tutto sommato analogo: “l’allontanamento consapevole e volontario della madre dall’ospedale ove si trova la bambina collocata nella “nursery” e dunque sotto il diretto controllo infermieristico non integra il delitto di abbandono di minore in quanto per la sussistenza del reato di cui all’art. 591 c.p. occorre che, in dipendenza dell’abbandono si crei uno stato, sia pur potenziale, di pericolo per l’incolumità della persona incapace” (trib. Milano, 10-1-2005).

Quanto al responsabile della struttura, ovvero il parroco, la situazione si complica. Tralasciando le teorie penalistiche, pur attinenti alla disamina ma che appesantirebbero questo scritto, si evidenzia la distinzione tra reato omissivo proprio, che si configura al solo mancato compimento di un’azione imposta dalla norma penale, e reato omissivo improprio, anche detto reato commissivo mediante omissione, consistente nel non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di evitare. L’articolo 40 comma 2 c.p. dispone infatti che non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a causarlo. L’obbligo giuridico può trovare la sua fonte secondo la teoria del trifoglio: nella legge, nel contratto, nella precedente azione pericolosa ma anche nella volontiaria assunzione di una situazione creata da altri: come nel caso appunto della culla termica, con cui il responsabile offre a chiunque lo voglia un servizio di presa in carico in maniera sicura di un neonato, assumendosi con ciò la responsabilità, seppur temporaneamente, della custodia, della salute ed in generale della vita del bimbo e del suo pronto affidamento a sanitari ed autorità.

Per il responsabile della culla termica di Bari non si può ritenere il reato di abbandono di minore, che è reato esclusivamente doloso, quando nel comportamento del parroco non è sicuramente ed ovviamente rinvenibile alcun dolo di voler abbandonare il bambino. Invece una colpa nella gestione della culla non si può escludere, anzi, alla luce degli elementi per ora trapelati – ma che chiaramente devono essere confermati dalle indagini e dall’eventuale processo – potrebbe essere astrattamente ipotizzabile: infatti, quando anche il black out si fosse verificato e per giunta questo fosse la causa della mancata allerta telefonica del deposito del bambino nella culla, il responsabile della struttura, oltre a dover garantire la manutenzione del sistema di allarme, doveva monitorarne funzionamento, tanto più dopo il noto problema elettrico. E, effettuate le relative prove, se verificato che il sistema aveva delle falle avrebbe dovuto interdire e rendere non utilizzabile il servizio di collocazione di neonati nella culla.

Come dicevamo, seppure il comportamento del responsabile della culla termica non sia doloso, certamente può essere considerato colposo per la negligenza appena descritta. Quindi il reato di abbandono di minore non potrà essere applicato verso il sacerdote, ma dovrà valutarsi a suo carico quello di omicidio colposo, se la magistratura ne riterrà integrati gli elementi.

Tacchi e pericoli. Trampoli al supermercato? Se cadi nessun risarcimento

Tacchi e pericoli. Trampoli al supermercato? Se cadi nessun risarcimento

“Ma, madame, lei con queste scarpe ha camminato!” Così il direttore di un negozio rispose, guardandone le suole, a una giovane francese che lì aveva comprato un paio di scarpe con tacchi a spillo Roger Vivier, appena lanciate sul mercato, quando quella il giorno dopo gliele riportò perché erano scomode.
Il modello pare risalga all’ottocento, ma è nei primi anni cinquanta che le donne, se possono permetterselo, come dopo ogni periodo di depressione – storico o psicologico, – accantonano comodo e utile in favore di estetica e frivolezza. La guerra era finita, dell’aiuto femminile nel lavoro bellico non c’era più bisogno (nessuno costruisce fucili e cannoni in tacchi alti) e il metallo, che il rinforzo necessario per quel tipo di tacco richiedeva, non era più razionato, come pure – almeno per alcune – il denaro per permettersi qualche stravaganza. E fu così che nel giro di pochi anni i tacchi si allungheranno.
I tacchi, come dicono le donne, sono un male necessario, piacciono ma possono dare anche dispiaceri.
Del resto in lingua inglese chiamano i tacchi a spillo “stiletto”. Il termine è in realtà italiano e a sua volta viene da stilus, il puntale o coltello acuminato che nell’antichità serviva per scrivere sulla cera ma, abbastanza comunemente ancora fino a pochi secoli fa, anche per difendersi ed attaccare. Maneggevole, occultabile, efficiente, con cui sfruttare l’effetto sorpresa. Arma da sicari e da donne (in La dama bianca di Grazia Deledda la nobildonna protagonista vendica il marito con quell’oggetto). Nel linguaggio militare si chiamavano stili caeci anche le punte di ferro che si nascondevano nel terreno per ritardare l’avanzata della cavalleria nemica.
Ma è evidente che gli stiletti sono pericolosi anche se non sono infissi nel terreno ma direttamente attaccati alle scarpe. Sì, dalle cosiddette fuck me shoes alla fall by shoes il passo – per rimanere in tema – è breve ma pericoloso.
Infatti in Italia la giurisprudenza sull’uso dei tacchi si è occupata più volte di eventi traumatici. Facciamo un piccolo riepilogo in materia.
La rottura del tacco della scarpa della sposa come fonte di danno esistenziale è ormai problema superato, avendoci messo una pietra sopra la suprema corte, addirittura a sezioni unite: “Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione dell’interesse leso, e quindi del requisito dell’ingiustizia” (cass. civ. n. 26974/2008).
Ma è sulle cadute dove si è formata la giurisprudenza più ampia, che in quegli incidenti spesso associa l’uso dei tacchi all’imprudenza: così per l’aiuto cuoca salita su un bancone per pulire una cappa (cass. civ. n. 9698/2009), così per la ultrasessantenne con – ad abundantiam – maschera da carnevale sul viso, sigaretta in una mano e borsa nell’altra (18332/2013), così per l’invitata ad un matrimonio nel duomo di Napoli (cass. civ. n. 3662/2013), tutte signore capitolate malamente dall’alto delle loro calzature (non si rinvengono casi con protagonisti maschili, ma probabilmente è soltanto questione di tempo). L’ultimo episodio giudiziale appena citato viene ricordato sul Sole 24 Ore in un articolo recente sul tema, che racconta che in quel caso la rottura del tacco sarebbe occorsa proprio ad una sposa. Però questa è una fake news. Il contesto era matrimoniale, ma l’incidentata non era la nubenda. Ma sappiamo come funziona: per un quotidiano di alto bordo fa sicuramente più colpo e più click parlare di caduta dell’impalmata nel giorno del sì. Però, appunto, così non era, bastava leggere meglio la sentenza o non inventare circostanze per colorare il fatto (seppur in questo caso soltanto di bianco).
Pochi giorni fa l’ultima conferma giurisprudenziale. La corte di cassazione con l’ordinanza n. 3046/2022 ha affermato che una donna che indossa tacchi a spillo e cade sul pavimento di un supermercato non ha diritto al risarcimento, almeno in assenza della prova di altri elementi che possano aver contribuito a provocare l’incidente (per esempio un pavimento bagnato).  La suprema corte con ordinanza n. 3046/2022 ha rigettato il ricorso inoltrato da una donna che in appello si era vista rigettare la domanda risarcitoria avanzata nei confronti della società titolare di una catena di supermercati.
E all’estero come sono messi quanto a diritto dei tacchi?
Non ci interessa citare noiose decisioni sulla responsabilità civile, ne abbiamo abbastanza qui. Che dire però dell’uso omicida delle scarpe da parte di Thelma & Lilia? Pardon, Thelma Carter e Ana Lilia Trujillo, due signore che negli USA sono state processate e condannate per aver ucciso a colpi di tacchi a spillo sulla testa i loro rispettivi compagni.
Prova provata che evidentemente, se usato con forza e precisione, un tacco 12 può equivalere a un calibro 12.
Ed allora da boot heels a boot hill è un attimo.

Morte a Vezzano. 75 anni fa l’ultima esecuzione capitale in Italia.

Morte a Vezzano. 75 anni fa l’ultima esecuzione capitale in Italia.

Esattamente tre quarti di secolo fa l’ultima esecuzione capitale in Italia, a Vezzano Ligure in provincia della Spezia.
La Costituente decise di eliminare la pena di morte dall’ordinamento penale ordinario, per cui le fucilazioni effettuate terminarono quasi completamente nel 1946 anche se ufficialmente l’abolizione ufficialmente sarebbe entrata in vigore il 1 gennaio 1948. Ci furono soltanto due eccezioni, per i tre responsabili della strage di Villarbasse e per tre fascisti condannati a morte dalla corte d’assise straordinaria della Spezia. E proprio per questi ultimi la pena di morte venne applicata legalmente sul suolo italiano per l’ultima volta, appunto il 5 marzo 1947 al Forte Bastia di Vezzano Ligure. Piccola digressione personale: molte storie di guerra le conosco direttamente dai racconti dei miei nonni, visto che le mie radici sono proprio in questo paese sulle colline che guardano il Golfo dei poeti. Dunque l’ultimo sangue versato per una pena inflitta dallo stato italiano bagnerà la terra di Vezzano Ligure, settantacinque anni fa, circa alle cinque del mattino del 5 marzo 1947. I condannati furono tre fascisti già legati alla Guardia Nazionale Repubblicana (con qualche dubbio sulle qualifiche): Aurelio Gallo, di Udine, capo del “servizio investigativo autonomo” presso la G.N.R. della Spezia; l’ex capitano della G.N.R. e questore ausiliario di La Spezia, Emilio Battisti, di Trento; l’ex maresciallo della G.N.R. Aldo Morelli. I tre erano già stati condannati a morte nel maggio 1946 dalla Corte di Assise locale per collaborazionismo, sevizie e responsabilità nelle deportazioni nei campi di sterminio.
L’esecuzione, attuata per fucilazione ad opera dei carabinieri, ebbe una particolarità. Dopo la prima scarica Gallo rimase illeso. Può succedere, anche perché nel rituale delle condanne a morte “moderne” nessuno degli esecutori materiali dovrebbe avere la certezza di aver ucciso; così, nel caso delle fucilazioni, almeno un fucile viene generalmente caricato a salve. Ora, un’altra regola spesso applicata nel codice non scritto delle esecuzioni un po’ di tutto il mondo vuole che se il primo tentativo di messa a morte non va a buon fine il condannato abbia salva la vita. Sembra anche che Gallo lo abbia ricordato al plotone: «Non dovreste più sparare, ma fate come credete». Invano.
I tre cadaveri dopo l’esecuzione furono trasportati al cimitero spezzino dei Boschetti. Qui in breve tempo accorse una moltitudine di persone inferocite, che vollero riaprire le loro tombe, in cui già i condannati erano stati collocati, per controllare che i corpi fossero veramente quelli dei tre fascisti. Ma, come spesso accade al termine di periodi di guerra o di terrore, l’assembramento degenerò e la gente radunata infierì sui resti degli odiati gerarchi locali. I tre personaggi condannati erano infatti tristemente famosi alla Spezia per i loro crimini, soprattutto Gallo, sadico torturatore dei partigiani prigionieri nella caserma del ventunesimo reggimento di fanteria (dove anche mio nonno Gerolamo “Ernesto” Portonato venne rinchiuso). Cioè proprio colui che ebbe pure la chance di essere graziato dal plotone di esecuzione al Forte Bastia. Ma c’è chi dice che la dea bendata volle soltanto illuderlo e beffarsi di lui come ulteriore punizione per le sue nefandezze.

Una gara ripetuta dopo 34 anni ed un’arringa irripetibile.

Una gara ripetuta dopo 34 anni ed un’arringa irripetibile.

arringa irripetibile


Processo penale per doping a Giuseppe Liberatore, vogatore supervincitore del Palio del Golfo della Spezia.
Udienza di discussione, finale della mia arringa difensiva.

“Giudice, prima di concludere vorrei soffermarmi su un ultimo aspetto, non rilevante processualmente ma forse interessante da conoscere prima della sua decisione.
In questo giudizio ho portato molti testimoni, tra cui vari compagni di voga di Liberatore, tra cui il più grande vincitore insieme a lui del palio del Golfo, Paolo Lavalle. Ci hanno parlato di che razza di atleta sia, della sua etica, di come da sempre veda il gesto sportivo, dell’agonismo che per lui è prima di tutto agone contro i propri limiti, che diventano i propri demoni. Come per i campioni più grandi.
Ma ci hanno parlato soprattutto dell’ultimo atto – per ora, ma chissà – di questa sua lunghissima carriera. Premetto che, oltre al giudice, nemmeno Liberatore sa che cosa sto per dire.

Per questa difesa sarebbe stato utile far emergere l’onestà sportiva di Liberatore anche nel corso degli anni passati.
Soprattutto quando e dove tutto è iniziato.
E quindi sarebbe stato utile far venire a testimoniare, dopo gli ultimi compagni già sentiti in questo dibattimento, anche il suo primo compagno di voga in assoluto, quello con cui Liberatore vinse la sua prima gara di canottaggio, sui gozzi liguri in doppio, nel Palio delle Cinque Terre juniores, nel lontano 1988. Poi ciascuno dei due ha seguito la sua strada e la sua vocazione.
È un cerchio che si chiude. Un déjà vu.
Questo compagno di voga però non può testimoniare in questo processo.
Ma può comunque parlare in sua difesa.
Ed è quello che sta facendo in questo momento indossando la toga”.

Per i casi della vita, dopo trentaquattro anni, un déjà vu: anche quest’ultima gara l’abbiamo disputata e vinta insieme.

Il processo si è concluso con sentenza di assoluzione con formula piena perché il fatto non costituisce reato.

La matita di Letta

La matita di Letta

“Non ci sono istruzioni per l’uso della vita, ognuno ha la sua matita, soltanto un po’ di buonsenso, soltanto un po’ di consenso”. In effetti, citando Laura Pausini, Enrico Letta di consenso ha bisogno, ma chi immaginava anche di quella matita che ha portato a casa come cimelio?
Matita non sua ma dello stato italiano, come è ovvio. E non destinata alla rottamazione, visto che quelle mille matite al giorno, nonostante qualche dubbio, pare venissero sanificate e riciclate.
Sì, perché rubare è peccato e, se vogliamo, anche reato. Si dirà, suvvia, una matita! In termini giuridici sussiste la particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131 bis del codice penale ed ancor prima può essere considerata mancante la stessa offensività. Nonostante ciò, tralasciando che forse la componente simbolica del gesto appare più negativa che positiva per Letta, il furto di grafite può esser punito (o almeno perseguito) dall’ordine costituito. Per esempio le cronache giudiziarie dicono che per il ladrocinio di una matita (per occhi) si possa essere mandati a processo (come è successo a una sessantenne) e addirittura fuori dall’Italia (nel caso di una donna cinese). Certo la quantità fa: se le matite sottratte – anche se mezze matite – sono tante la denuncia dovrebbe essere messa in conto. Chissà se se lo aspettava però una coppia di Enna quanto ha fatto scorta di matitine targate Ikea, che apparentemente è pratica con un certo seguito sui social network, dove addirittura esiste un gruppo facebook dedicato. Se poi una cantante ruba una matita ai principi di Inghilterra, come ha fatto Camilla Cabello, capita che il fatto venga visto con regale indulgente dalle stesse vittime del delitto. E anche anche la letteratura per l’infanzia ha provveduto a sdoganare favolisticamente il comportamento con “Il ladro di matite” di Mario Tissone.

Comunque alle elezioni non conviene rubare lapis. Qualche anno fa si scatenò una caccia all’uomo casa per casa per tentare vanamente di ritrovare una matita sottratta ad un seggio. Ed anche Beppe Grillo, impadronitosi di una matita elettorale, fu seguito, raggiunto e costretto a restituire il bottino.
Del resto la legge è chiara: “L’elettore che non riconsegna una scheda o la matita è punito con la sanzione amministrativa da lire 200.000 a lire 600.000” (art. 110 d.p.r. 361 del 30 marzo 1957).
Con i politici che risultano sempre privilegiati, anche nelle piccolezze. Una norma analoga infatti non esiste per le votazioni espresse con l’ausilio della matita dai parlamentari elettori del presidente della repubblica: ma la sanzione è prevista invece per i comuni votanti quando li mandano ricoprire quel ruolo in parlamento.

Il presidente re

Il presidente re

Il re “è il Capo Supremo dello Stato” (art. 5 statuto albertino).
“Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato” (art. 87 c. 1 costituzione della repubblica italiana).

“Il Re solo sanziona le leggi e le promulga” (art. 7 st.alb.) e “fa i decreti e regolamenti necessarii per l’esecuzione delle leggi” (art. 6 st.alb.).
Il presidente della repubblica “promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti” (art. 87 c. 5 cost.).

“Il Re nomina a tutte le cariche dello Stato” (art. 6 st.alb.).
Il presidente della repubblica “nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato” (art. 87 c. 7 cost.).

Il re “comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra” (art. 5 st.alb.).
Il presidente della repubblica “ha il comando delle Forze armate, […] dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere” (art. 87 c. 9).

“Il Re può far grazia e commutare le pene” (art. 8 st.alb.).
Il presidente della repubblica “può concedere grazia e commutare le pene” (art. 87 c. 11 cost.).

“Il Re convoca in ogni anno le due Camere: può prorogarne le sessioni, e disciogliere quella dei Deputati” (art. 9 st.alb.).
“Ciascuna Camera può essere convocata in via straordinaria per iniziativa […] del Presidente della Repubblica” (art. 62 c. 2 cost.) e “il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse” (art. 88 c. 1 cost.).

“Il Senato è composto di membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato” (art. 33 st.alb.).
“Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita […]. Il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a  cinque” (art. 59 c. 2 cost.).

“Il Re, salendo al trono, presta in presenza delle Camere riunite il giuramento di osservare lealmente il presente Statuto” (art. 22 st.alb.).
“Il Presidente della Repubblica, prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione” (art. 91 cost.).

“Il Re nomina e revoca i suoi Ministri” (art. 62 st.alb.).
“Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri” (art. 92 c. 2 cost.).

“La Giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo Nome dai Giudici ch’Egli istituisce” (art. 68 st.alb.).
Il presidente della repubblica “presiede il Consiglio superiore della magistratura” (art. 87 c. 10 cost.) e “spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati” (art. 105 cost.).

“La persona del Re è sacra ed inviolabile” (art. 4 st.alb.).
“Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione” (art. 90 c. 1 cost.).

“Attentato contro il Re […]. Chiunque attenta alla vita, alla incolumità o alla libertà personale del Re […] è punito con la morte. […]” (art. 276 c.p. prae l. n. 1317/1947).
“Attentato contro il Presidente della Repubblica. Chiunque attenta alla vita, alla incolumità o alla libertà personale del Presidente della Repubblica, è punito con l’ergastolo” (art. 276 c.p. post l. n. 1317/1947).

“Offesa alla libertà del Re […]. Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’ articolo precedente, attenta alla libertà del Re […] è punito con la reclusione da cinque a quindici anni […]” (art. 277 c.p. prae l. n. 1317/1947).
“Offesa alla libertà del Presidente della Repubblica. Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo precedente, attenta alla libertà del Presidente della Repubblica, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni” (art. 277 c.p. post l. n. 1317/1947).

“Offesa all’onore del Re […]. Chiunque offende l’onore o il prestigio del Re […] è punito con la reclusione da due a sette anni […]” (art. 278 c.p. prae l. n. 1317/1947).
“Chiunque offende l’onore o il prestigio del Presidente della Repubblica è punito con la reclusione da uno a cinque anni” (art. 278 c.p. post l. n. 1317/1947).

“Lesa prerogativa della irresponsabilità del Re. Chiunque, pubblicamente, fa risalire al Re […] il biasimo o la responsabilità degli atti del Governo è punito con la reclusione da due a cinque anni” (art. 279 c.p. prae l. n. 1317/1947).
“Lesa prerogativa della irresponsabilità del Presidente della Repubblica. Chiunque pubblicamente, fa   risalire   al Presidente della Repubblica il biasimo o la responsabilità degli atti del Governo è punito con la reclusione fino ad un anno e con la multa da centotrè euro a milletrentadue euro” (art. 279 c.p. post l. n. 1317/1947 e prae abrogazione ex l. n. 85/2006).

“Attentato contro gli organi costituzionali. È punito con la reclusione non inferiore a dieci anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette un fatto diretto a impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente: 1) al Re […] l’esercizio della sovranità […]” (art. 289 c.p. prae l. n. 1317/1947).
“Attentato contro gli organi costituzionali e contro le Assemblee regionali). È punito con la reclusione non inferiore a dieci anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette un fatto diretto a impedire, in tutto o in  parte,  anche temporaneamente: 1) al Presidente della Repubblica […] l’esercizio delle attribuzioni o delle  prerogative  conferite  dalla legge […]” (art. 289 c.p. post l. n. 1317/1947).

Caso Mollicone: il giudice che “rinuncia” alla pensione fa davvero un favore al processo?

Caso Mollicone: il giudice che “rinuncia” alla pensione fa davvero un favore al processo?

Serena Mollicone

Si sa, giornalismo e giustizia sono di per sé forme elastiche di interpretazione dei fatti. Figuriamoci che può succedere quando si fa cronaca giudiziaria. Eppure in alcuni articoli scritti in questa materia talvolta yin e yang appaiono più netti delle strisce della maglia della Juventus: c’è il bianco, c’è il nero e di sfumature non dico cinquanta, ma nemmeno mezza. Così fa Repubblica on line parlando del processo per l’omicidio di Serena Mollicone, che finalmente, dopo quasi vent’anni di attesa, dovrebbe iniziare a marzo. In questo contesto fa capolino il presidente del tribunale di Cassino, Massimo Capurso: dice che, per far parte egli stesso della corte di assise che altrimenti non si potrebbe comporre per carenza di giudici con l’anzianità necessaria, rinvierà la pensione. Repubblica nel titolo dice addirittura che il magistrato “rinuncia alla pensione”. E già da qui si dovrebbe capire il livello dell’articolo, di cui la retorica non è l’unica pecca. Ma se l’esagerazione del titolo appare tanto enfatica quanto innocua, il problema sta invece nella narrazione della notizia, che avrebbe meritato un’analisi più critica, tecnica ed approfondita. Non è quello ogni professionista dell’informazione dovrebbe dare, soprattutto in pezzi su argomenti anche soltanto minimamente specialistici? Mi spiego. Credo che sfugga a molti non addetti ai lavori che l’utilizzo di un giudice prossimo alla pensione in un processo così delicato possa rivelarsi una possibile zavorra ottenendo l’effetto contrario a quello sperato. Ritengo che la notizia avrebbe dovuto essere data in maniera più critica, tecnica e approfondita: così Repubblica fa sembrare un regalo alla giustizia da parte del magistrato quello che invece potrebbe essere un involontario boomerang. Mi spiego. Viene dato risalto nel pezzo all’asserita abnegazione di questo magistrato mirata a non ritardare ancora la celebrazione di un processo importante, rinviato troppo a lungo e piagato da indagini inconcludenti. Purtroppo nell’ottica dell’accelerazione del procedimento il gesto può apparire, più che virtuoso, virtuale (se non controproducente). Basta infatti una piccola ricerca in rete per apprendere che Capurso è nato il 31 luglio 1952. Salvo errori dovrebbe dunque andare obbligatoriamente in pensione il 31 luglio 2022. Ciò significa che, partendo il processo di primo grado a marzo, esso dovrà concludersi in un anno e quattro mesi (ipotesi non affatto certa, vista la complessità del caso), altrimenti, verosimilmente (salvo improbabile “nulla osta” dei difensori degli imputati), quando verrà a mancare per pensionamento quel giudice tutta l’istruttoria già compiuta sarà annullata ed il processo dovrà ricominciare praticamente da zero. Quindi, paradossalmente ma realisticamente, l’utilizzo di Capurso come giudice potrebbe provocare un ulteriore allungamento del processo (appunto di un anno e quattro mesi) se il primo grado non si concludesse entro luglio 2022, facilitando così ulteriormente eventuali prescrizioni dei reati. Come dicevamo, un dono che può trasformarsi in un danno.

Domicidio legale

Domicidio legale

Forse avrete sentito parlare del concetto di domicidio: è definibile come l’annichilimento fisico, psicologico e sociale di persone in assoluta difficoltà economica causato dalla negazione del diritto all’abitazione. In altre parole – anch’esse povere, per rimanere in tema – è il lasciare vivere per strada, e lì consumarsi, gli homeless, i clochard, i senzatetto. I barboni. Brutta parola questa, ma appunto rende meglio la bruttezza di questo tipo di vita.
Non c’è pistola fumante nel domicidio. C’è qualcosa di più simile per lentezza alla goccia cinese (soprattutto se, nelle notti di pioggia, un riparo di fortuna non è ben coperto). L’omissione permanente della società civile del compimento dei propri doveri genera questo fenomeno.
Qualche volta però il domicidio non è cagionato da un’omissione della società ma, viceversa, dall’azione della burocrazia. In questo caso si può parlare di domicidio legale: la legge applicata per annientare chi non ha nulla, nemmeno un quattro mura e un tetto.
E sulle sponde del Lario le istituzioni sembra abbiano fatto un voto al domicidio legale: da lì la cosiddetta crociata comense contro i clochard.
È soltanto di pochi anni fa la notizia che il sindaco lariano in periodo natalizio aveva vietato ai volontari di portare la colazione ai senzatetto che dormivano sotto il portico della ex chiesa di san Francesco. I media non hanno approfondito se poi gli Spiriti del Natale Passato, Presente e Futuro abbiano fatto cambiare idea a questo novello Ebenezer Scrooge in fascia tricolore.
Sempre a Como don Roberto Malgesini, il prete ucciso quest’anno, per aver portato la colazione ai senzatetto era stato sanzionato con una multa, peraltro poi regolarmente pagata.
Un paio di mesi fa un assessore aveva portato via una coperta ad un homeless: giuridicamente si tratterebbe di un abuso di ufficio, moralmente di una vile porcata. Dove? Ancora a Como.

Como

E di nuovo a Como ieri un senza fissa dimora sessantatreenne essendosi allontanato dal suo domicilio è stato sanzionato sulla base della normativa anti-covid (nell’inedita interpretazione estensiva anti-clochard). Il problema nasce dal fatto che appunto Pasquale Giudice, questo il nome del pericoloso peripatetico, vive per strada. Sanno gli zelanti gendarmi che, ai sensi dell’art. 43 del codice civile, “il domicilio di una persona ènel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi”? Si ignora quali siano gli interessi di Pasquale e si presume che i suoi affari siano limitati al maneggio di pochi spiccioli, ma tant’è, il suo domicilio è a Porta Torre, ovvero la zona di Como dove di solito elemosina. Quindi Pasquale non era sanzionabile: era per strada, dove ha la sede principale dei suoi affari, dei suoi interessi, della sua questua e della sua vita. Nessun allontanamento dal suo domicilio, quindi. Deve essere indicato un indirizzo civico? Magari lo avesse realmente. Ed anche i burocrati in uniforme dovrebbero sapere che ad impossibilia nemo tenetur, nessuno è obbligato all’impossibile.
Ah, le leggi.
Di reperibilità dei senza fissa dimora parlano l’art. 2 c.3 l. n.1228/1954, l’art.3 c.38 l. n.94/2009, la circolare min.int. n.19 del 17/09/2009. Reperire chi non ha un recapito vi sembra fantasia? I giuristi la chiamano fictio iuris ma la giudicano allo stesso modo.
Invece di diritto all’abitazione parlano fonti giuridiche che stanno ben più in alto, ad esempio la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 25) e la Costituzione italiana (art. 47). La corte costituzionale poi ha affermato che “il diritto a una abitazione dignitosa rientra, innegabilmente, fra i diritti fondamentali della persona” (sentenza n. 119/1999).
Certo dormire sotto le stelle è romantico e piacevole d’estate in riva ad un lago. Ma poche volte in inverno. Probabilmente mai se il lago è quello di Como.
P.s: in realtà non credo abbiate sentito prima di questo articolo la parola domicidio. È soltanto onomaturgia. Semplicemente uno scherzo linguistico. Insomma, l’ho inventata io qui, non esiste nei dizionari né nei codici. Ma dovrebbe esistere. O almeno ne dovrebbe esistere una analoga.
Però, a pensarci bene, ora esiste.

Condannato albanese che baciava il pene del figlio. La difesa: «È una tradizione dell’Albania!»

Condannato albanese che baciava il pene del figlio. La difesa: «È una tradizione dell’Albania!»

Uno dei casi giudiziari degli ultimi anni riguardante cittadini albanesi in Italia è diventato abbastanza famoso nella penisola, mentre non è molto noto in Albania. Parliamo dell’uomo che è stato accusato di aver praticato sesso orale al figlio di cinque anni. La contestazione della Procura era quella di violenza sessuale aggravata “perché in più occasioni abusando della sua autorità di padre, del divario di età e dell’immaturità personologica del figlio … correlata alla sua minore età e con violenza, abbassandogli repentinamente i pantaloni e gli slip, costringeva ed induceva costui a subire plurimi atti sessuali, consistiti in palpeggiamenti alle parti intime ed in rapporti orali. Con l’aggravante del fatto commesso su minore di anni 10”. Tale reato, che è punito sulla base degli articoli 609 bis, ter e quater del codice penale, prevede una pena che può arrivare a quattordici anni di carcere nel caso in cui la vittima abbia meno di dieci anni.
Occorre sottolineare che i familiari dell’uomo fin da subito mostravano un sentimento di stupore verso un’accusa del genere e lo stesso bambino non appariva provare disappunto ma anzi cercava il padre quando questo era in carcere. Anche la moglie venne processata con le stesse accuse, per non aver vigilato ed essere stata quindi in qualche modo complice, ma venne poi assolta.
Il fatto è avvenuto nel 2010 a Reggio Emilia, ma il processo si è concluso nel 2019. Come è andata all’imputato? Riassumendo, nel primo grado di giudizio il Tribunale di Reggio Emilia ha assolto l’uomo con sentenza del 21 novembre 2012. In secondo grado la Corte di appello di Bologna il 19 aprile 2017 ha confermato l’assoluzione. In terzo grado la Corte di cassazione a Roma il 29 gennaio 2018 ha annullato la sentenza della Corte di appello di Bologna rinviando ad altra sezione della stessa corte di appello per un nuovo giudizio. Nel nuovo giudizio di secondo grado il 16 maggio 2019 la Corte di appello di Bologna questa volta ha condannato definitivamente l’uomo a due anni e otto mesi di reclusione (oltre al risarcimento del danno da versare al figlio).
Il caso, come detto, ha suscitato scalpore in Italia anche tra i non addetti ai lavori, ne hanno parlato vari media e ha aperto tantissime discussioni. Il processo è stato oggetto di anche di vari articoli specialistici ed è anche stato oggetto di analisi in lezioni tenute presso la Scuola della magistratura italiana.
Ma vediamo quali fatti sono statti concretamente provati nel procedimento penale.
L’addetta alla cucina dell’asilo nido nel quale era inserito il bambino ha spiegato le circostanze della scoperta che ha portato al processo. In un contesto giocoso (preparazione di una torta), in una atmosfera serena e priva di tensione, mentre uno dei bambini riferiva di una sua birichinata consistente nel girare nudo per casa, che avrebbe suscitato l’ilarità dei genitori, con altrettanta spontaneità il bambino albanese aveva detto riferendosi al padre “a me me lo ciuccia”. Il bambino aveva poi simulato il gesto prendendo in mano un cucchiaio e mettendoselo in bocca. La frase aveva naturalmente scatenato la preoccupazione e la curiosità dell’ausiliaria che aveva chiamato una collega per avere sostegno nel cercare di capire a cosa esattamente facesse riferimento il bambino. La frase era stata quindi ripetuta: “me lo ciuccia come un biberon” seguita dal gesto di “succhiare” e “tirare su e giù” la coda del cucchiaio senza peraltro tenere in bocca l’oggetto più di tanto.
Pochi giorni dopo l’acquisizione della notizia di reato veniva disposta dal pubblico ministero una registrazione audiovisiva interna all’abitazione dell’imputato. In essa si può vedere il padre ed il figlio sdraiati sul letto matrimoniale di una camera; l’adulto fa zapping in televisione e ad un certo punto pare che tocchi fugacemente il bambino nella zona genitale. L’uomo veniva quindi arrestato.
Veniva sentita la sorella diciassettenne del bambino, la quale faceva presente che era un gesto consueto del padre quello di baciare (non succhiare) l’organo genitale del figlio, che non mostrava alcun problema: una pratica considerata normale nella loro famiglia, fatta per affetto verso i bimbi maschi fino ai quattro, cinque anni da parte dei padri e dei nonni maschi ma vietata alle femmine della famiglia.
Veniva prodotto dalla difesa dell’imputato un documento, privo di autenticazione ufficiale ma apparentemente proveniente da un ufficio pubblico albanese, in cui si afferma che nelle zone rurali della prefettura di Vlore esisterebbe ancora la tradizione per cui un padre manifesta affetto per il figlio accarezzandolo nelle parti intime “esprimendo così la gloria della prosperità e continuità della generazione”.
Pochi giorni dopo l’arresto dell’uomo venivano disposte intercettazioni ambientali nella sala di ascolto del carcere di Reggio Emilia, intercettazioni che mostrano come egli, parlando con i congiunti, difenda la propria innocenza negando di aver compiuto atti dalla valenza anche minimamente sessuale e facendo presente come si trattasse degli stessi gesti di affetto che avevano avuto con lui il padre ed il nonno. Dice, riferendosi al suo pene: “a me lo tiravano”. E a tal proposito, ancora intercettato in carcere mentre parla con la moglie, ricorda un episodio simile avvenuto sempre sul figlio, in cui un’altra persona “gliel’ha tirato così quando è venuto e il bimbo si è messo a piangere”. Parla poi, sembra di capire, di una conversazione avuta con un altro detenuto, romeno: il padre del romeno chiedeva al figlio il perché l’albanese fosse in carcere e lui gli rispondeva perché aveva baciato il figlio in quel modo. Il padre del romeno allora diceva al figlio “anch’io ti ho baciato così. Noi i figli li baciamo così”, nei Balcani per il maschio si fa così”. L’imputato in generale non nega il fatto contestato ma non capisce come gli possa essere rivolta un’accusa di pedofilia per un bacio di pochi secondi al pene del figlio e si mostra stupito delle leggi italiane: “le leggi che sono qua, dio santo!”. Sempre sotto intercettazione l’imputato viene sentito parlare di una conversazione che avrebbe avuto con una persona che gli ribadiva la gravità del fatto per “aver ciucciato” il pene del figlio. Al che l’imputato avrebbe risposto: “ma guarda che non era ciuccio, ciuccio significa quando dura dei minuti, io invece l’ho soltanto baciato” e, parlando della normalità del gesto, “anche in tutto il Ducat [località dell’Albania] diranno la stessa cosa”. L’uomo continua, insistendo di non essere pedofilo, malato o pazzo: “Quello che ho fatto è perché… è perché così faceva anche mio padre. Noi eravamo cinque figli… Eravamo cinque maschi e mio padre…”. Alla domanda “fino a che età ti ha baciato?” l’imputato rispondeva: “considera che avevo circa otto anni, che io ricordi”. Parla del fatto che il bambino possa essere baciato allo stesso modo dai parenti, cosa che viene considerata normale. Dice anche: “se è così come dite voi, che io possa aver fatto – chiedo scusa del termine – un “bocchino”… Ma il “bocchino” non si fa in cinque secondi”. Un altro albanese, mentre parla con l’imputato, dice che per le consuetudini albanesi questi gesti sono normali e che “se tu fossi stato nel tuo paese non saresti stato perseguitato”.
Il padre del bambino non si dà pace per quello che lui ritiene un gesto di assoluta irrilevanza giuridica e morale, per il quale in carcere lo considerano un pedofilo e lo minacciano.
Tutti concordano che l’atteggiamento del bambino, mostrato dalle riprese audiovisive, era di assoluta indifferenza al gesto del padre, continuava anche a mangiare dal biberon.
Guardando alla valutazione giuridica che hanno dato i vari giudici che si sono occupati del caso, si può fare questa sintesi.
Il tribunale di Reggio Emilia afferma, dal punto di vista materiale, che non possono esserci dubbi che “nel nostro ordinamento il contatto con l’organo genitale maschile, il bacio o ancor più l’inserimento in bocca del pene integri un atto sessuale in quanto invasivo della sfera sessuale, e integrante un rapporto del corpo dell’agente con parti del corpo della vittima naturalmente idonee a produrre stimolazione sessuale”. Quanto però all’aspetto psicologico, mancherebbe nella fattispecie qualsiasi “‘elemento aggiuntivo rispetto alla materialità del fatto che induca a pensare che la condotta dell’imputato, nato e cresciuto in un diverso contesto culturale, fosse accompagnata dalla coscienza del carattere oggettivamente sessuale secondo la nostra cultura di riferimento, del bacio e tanto più del succhiotto sul pene del bambino anche quando effettuato dal genitore, per cui detta condotta integra di regola il reato di violenza sessuale salva la ricorrenza di specifiche e univoche circostanze di contorno idonee a provare l’assenza di qualsivoglia stimolo sessuale alla base del comportamento”. In altre parole nel fatto dell’imputato ci sarebbe l’elemento materiale, ma mancherebbe quello psicologico. Il punto centrale che porta questo tribunale all’assoluzione è, in altre parole, la diversa cultura dell’imputato, intesa ovviamente non come istruzione derivante dagli studi compiuti, ma in sostanza come insieme dei valori giuridici, morali, sociali e consuetudinari che gli appartengono in quanto proveniente da un altro paese o appartenente ad un altro popolo.
La Corte di appello di Bologna (nel suo primo giudizio) ha di nuovo assolto l’uomo, ma ragionando diversamente.
Ha ritenuto che la condotta messa in atto dall’uomo si concretasse in meri ‘‘gesti di affetto e di orgoglio paterno nei confronti del figlio maschio, assolutamente privi di qualsiasi implicazione di carattere sessuale e indicati come rispondenti a tradizioni di zone rurali interne dell’Albania, pese di origine degli imputati”. La Corte di appello esclude quindi sia l’elemento soggettivo – quindi il dolo – non essendo gli atti mirati a soddisfare ‘‘qualche forma di concupiscenza sessuale nei confronti del minore”, che l’elemento oggettivo, ritenendo che “l’atto commesso dall’imputato non ha in sé alcun intrinseco significato sessuale, né alcuna obiettiva attitudine offensiva dell’altrui sfera sessuale, risultando esso una commistione di abitudini del gruppo sociale di appartenenza con una chiara manifestazione ludica, ultra affettiva e dimostrativa dell’orgoglio per l’unico figlio maschio”.
In altre parole mentre il giudice di primo grado esclude soltanto l’elemento psicologico del reato, quello di secondo grado esclude elemento psicologico ed elemento materiale: nell’uomo non c’è volontà di commettere il reato ma nemmeno la sua condotta ha valenza illecita, in quanto non può essere considerata come “sessuale”.
La Corte di cassazione di Roma, supremo organo giurisdizionale in Italia, ha ritenuto invece che “la dichiarata ignoranza da parte degli imputati e della loro famiglia, circa l’offensività della condotta posta in essere ai danni del figlio minore, così come l’ignoranza sull’esistenza della norma penale incriminatrice di essa non appare idonea ad integrare una causa di non colpevolezza degli imputati stessi che oltre a risultare ben integrati nel tessuto sociale ove vivevano e lavoravano da anni (tanto che i fatti emergono nel contesto scolastico ove il proprio figlio era collocato), allegano a propria discolpa una ignoranza che non assumerebbe rilevanza anche nel paese di origine, ove i medesimi fatti risultano sanzionati penalmente”. La corte di cassazione accoglie quindi il ricorso della procura generale presso la corte di appello di Bologna, valutando che “tale presunta tradizione sarebbe in contrasto anche con le prescrizioni del codice penale albanese (artt. 100 e ss.), risulterebbe smentita finanche in Albania (risultando, anche a volere accedere alla tesi difensiva, limitata solo alle zone rurali, e limitata alla mera carezza bene-augurale) e rispetto alla quale non poteva essere neppure ammessa una non consapevolezza della illiceità da parte degli imputati, che erano da tempo residenti in Italia e non potevano ignorarne le leggi, se non inescusabilmente”. Tra l’altro, anche relativamente al profilo oggettivo, secondo la Corte di cassazione, la Corte di appello non avrebbe valutato le prove emerse, in particolare i filmati acquisiti e le testimonianze delle insegnanti, considerate pienamente attendibili in primo grado, dalle quali emerge come il bambino avrebbe testualmente descritto la condotta del padre affermando che costui ‘‘gli succhiava il pisellino come un biberon” e avrebbe mimato altresì la condotta mettendosi in bocca un cucchiaino e ‘‘facendo su e giù” con lo stesso. Quindi, riassumendo, l’imputato non poteva invocare a sua discolpa né la carenza di offensività sessuale della sua azione, né l‘ignoranza della legge penale. Legge penale che peraltro anche in Albania – come rileva la Corte di cassazione – vieta atti sessuali con i bambini (anche se in realtà la Corte non dice nulla su come atti simili a quelli compiuti a Reggio Emilia sarebbero valutati in Albania). Per queste ragioni il supremo organo giurisdizionale italiano ha quindi rinviato alla Corte di appello di Bologna il processo, affinché venisse celebrato un nuovo giudizio di secondo grado presso un’altra sezione della stessa corte, questa volta però sulla base delle indicazioni date dalla Cassazione fatta con la sentenza di rinvio. In altre parole la Corte di Bologna a questo punto non poteva discostarsi da tali indicazioni: di fatto la corte di appello, come succede per legge nei casi di rinvio, è vincolata ad una determinata impostazione dettata da una corte superiore (la Cassazione, appunto). Ed infatti la Corte di appello di Bologna ha condannato definitivamente a due anni e otto mesi l’uomo.
Ma quali sono i principi espressi da questa importante sentenza (la numero 29613/2018 della Cassazione) validi per i cosiddetti reati culturalmente orientati (o motivati), cioè quei reati che possono essere commessi da un soggetto, di solito straniero, che agisce seguendo la sua diversa cultura di provenienza?
Ecco i criteri di valutazione formulati dalla Cassazione (e già suggeriti da Fabio Basile, professore di diritto penale dell’università di Milano) che tutti i giudici italiani dovrebbero tener presenti nella valutazione di questo tipo di reati (usando quello che è stato chiamato “test culturale”):
1) natura del bene offeso. Secondo questo principio la “difesa culturale” non assume alcuna idoneità ad esonerare l’imputato da responsabilità qualora il reato comporti gravi offese a beni fondamentali della persona (creando una sorta di sbarramento invalicabile), quali vita, incolumità, libertà di autodeterminazione in ambito sessuale ecc… Si guarda quindi al bene giuridico offeso ed al grado di offesa al medesimo;
2) natura della norma culturale. Va valutato se la norma in adesione della quale è stato commesso il reato trovi un riscontro anche in una corrispondente norma di diritto nell’ordinamento giuridico del paese di provenienza dell’immigrato. In questo caso si dovrà sicuramente ritenere tale circostanza rilevante quanto alla consapevolezza della antigiuridicità della condotta e quindi alla colpevolezza del fatto commesso nell’imputato. Un altro parametro relativo a questo aspetto riguarda il carattere vincolante della norma culturale straniera: occorre valutare cioè se essa è rispettata in modo omogeneo da tutti i membri del gruppo culturale o, piuttosto, risulta desueta e poco diffusa anche in quel contesto;
3) grado di inserimento dell’immigrato nella cultura del paese di arrivo e grado di adesione alla cultura del paese di origine. Risulta ovvio che la credibilità di una difesa basata sulla cultura di origine sia inversalmente proporzionale al grado di integrazione dell’imputato nella cultura del paese di fronte ai cui giudici è chiamato a rispondere del reato.
Un altro onere generale che dovrebbero porsi i giudici è quello di “tradurre” i comportamenti sotto esame in “equivalenti culturali”: il giudice dovrebbe “tradurre” il significato del comportamento tra le due culture. Per intenderci, per una donna musulmana togliersi il velo avrebbe lo stesso significato sociale che ha per un’italiana togliersi la camicetta.
Ovviamente, come accennato, l'”orientamento culturale” dei reati non basta che sia proclamato, ma deve essere provato. Quindi tradizioni e consuetudini culturali, se invocati dalla difesa, devono essere documentati. Nel caso di Reggio Emilia la Cassazione giudica che questo non è avvenuto: la difesa si è basata su mere dichiarazioni degli imputati e dei loro congiunti e di una dichiarazione della prefettura di Vlore che però non è stata presentata corredata di alcuna certificazione di autenticità. Anzi, dall’istruttoria emergeva invece che “non di mere occasionali carezze si trattava, ma di vere e proprie fellatio”.
Non si ha notizia di molti casi giudiziari analoghi, anche all’estero. Negli Stati Uniti ci sono stati sicuramente almeno due processi per fatti simili: in un caso compiuti dalla madre, nell’altro dal del padre. Entrambi sono stati assolti, però era stato provato che si trattasse soltanto di baci anziché di succhiotti ed i bambini erano anche molto più piccoli (uno non aveva più di un anno, l’altro un anno e mezzo), cosicché non si è valutata una valenza sessuale negli episodi.
Un caso giudiziario simile riguardante albanesi ha avuto invece per protagonista una bambina: nel 1989 in Texas due genitori originari dell’Albania persero la potestà genitoriale perché il padre fu accusato di aver molestato la figlia per averne più volte accarezzato il pube pubblicamente, durante un evento sportivo della scuola. L’esperto culturale testimoniò che in Albania quello era un modo di mostrare affetto. Nonostante ciò i bambini vennero dati in affidamento e poi adottati.
Vari giuristi e antropologi hanno approfondito accademicamente l’argomento dell’usanza del bacio al pene del bambino. La costituzionalista Ilenia Ruggiu dell’università di Cagliari (ad esempio nell’articolo “Omnia munda mundis. La pratica culturale dell’„omaggio al pene” del bambino: uno studio per la cultural defense”) ha scritto pagine molto interessanti sul tema: l’usanza del cosiddetto “omaggio al pene” – ma chi la pratica non la chiama così – è una manifestazione di orgoglio genitoriale verso la mascolinità del figlio. È diffusa in varie culture: Telugu (India), Afghanistan, Nuova Guinea, Hawaii, Manchu (Cina), Cambogia, Vietnam, Corea, Thailandia, Rom, Turchia, Albania. Si può notare, incidentalmente, che, a parte quella albanese, nessuna di queste culture è di origine occidentale.
Proprio riguardo all’Albania, pare che non ci siano studi accademici su questo argomento, almeno noti a livello internazionale. Se questi studi esistessero e fossero stati conosciuti all’estero, forse l’esito del processo per i fatti di Reggio Emilia avrebbe potuto essere diverso, almeno parzialmente. Ed in effetti gli organi giudiziari che se ne sono occupati avrebbero potuto autonomamente, d’ufficio, indagare di più questo aspetto, ovvero della reale esistenza di quella tradizione, visto che viene ritenuto rilevante, e non considerare insufficienti le prove sul punto portate dalla difesa. Eventualmente avrebbe potuto essere nominato dal giudice come perito un esperto culturale (ad esempio un antropologo competente sulle tradizioni sociali albanesi). Nell’impostazione “culturalmente orientata” data dalla Cassazione, in questo senso questa tradizione, se esistesse, potrebbe essere assunta come parametro di giudizio.
Vladimir Kosturi, presidente di Illyria, associazione albanese in Italia (che ha sempre sostenuto le ragioni del padre, anche con diversi sit-in), in un’intervista rilasciata a Radio Radicale, in relazione al caso di Reggio Emilia ha dichiarato, riportando l’opinione della comunità albanese, che “la nostra tradizione è anche di baciare i nostri figli nelle parti intime del corpo”, in sostanza nello spirito di una manifestazione di amore più naturale e meno fredda tra genitori e figli rispetto ad altre culture, dove questa fisicità si è persa.
Quanto all’Italia, la Ruggiu, citando l’antropologo Antonino Colajanni, riferisce che “a livello fisico, in diverse zone, soprattutto del Sud Italia, era ed è ancora in uso che le madri diano un bacio sul pene del bambino. Ad esempio, nella Piana degli albanesi [così chiamata per la storica presenza di italo-albanesi] in Sicilia, il bacio sul pene dell’infante dato dalla madre poteva nascere da un moto di orgoglio, espletato per affermare «tu sei un uomo»”.
In generale tutti si possono porre interrogativi riguardo alla natura sessuale di certi gesti. Molti genitori italiani e probabilmente di tutto il mondo fanno foto al figlio neonato nudo o lo baciano sulle natiche. A chi verrebbe in mente di considerare di natura sessuale questi gesti? Ed il bacio? Quanti significati può assumere? Sicuramente non per forza di natura sessuale. Ed il bacio sulla bocca tra uomini? In Italia è considerata una pratica omosessuale, ma non così in altre nazioni.
La vicenda di Reggio Emilia, come detto, ha creato un moto di stupore nell’opinione pubblica italiana che ha avuto conoscenza della notizia. Molti italiani non hanno creduto nemmeno che possa esistere al giorno d’oggi un’usanza del genere in un popolo occidentale ed hanno pensato ad una bugia detta dai familiari per fornire una giustificazione all’uomo.
Chiudo con un aneddoto personale. Io stesso, nonostante una lunga esperienza come avvocato difensore di stranieri in Italia in processi penali, non avevo mai avuto conoscenza di questa presunta usanza in Albania e, relativamente al caso di Reggio Emilia, ero tra quelli che credevano che rientrasse tra le fake news “ad uso processuale” che talvolta testimoni interessati raccontano ai giudici per discolpare propri amici o parenti in processi di questo tipo.
Così un giorno, con tono incredulo per quella che pensavo essere un’invenzione, durante una chiacchierata nel viaggio in auto per andare ad un tribunale insieme ad uno dei miei tanti clienti albanesi ed a suo figlio, ho chiesto delucidazioni in merito: “Senti, X, sai che in un processo penale un tuo connazionale albanese accusato di aver fatto sesso orale al suo bambino ha dichiarato che in Albania è un’usanza normale per i padri baciare il pene dei figli piccoli?” Questo mio cliente albanese, un uomo equilibrato che vive e lavora da molti anni in Italia (e senza ovviamente alcun interesse diretto nel fatto di Reggio Emilia), mi ha risposto molto serenamente, con suo figlio maggiorenne che ascoltava il nostro dialogo dal sedile posteriore dell’auto.
Mi ha detto questo: “È vero. Io ho baciato il pene di mio figlio fino a quando aveva otto anni”.

Quel frogione di Mancini o dell’exceptio falsitatis

Quarti di finale di Coppa Italia. Napoli – Inter: 0 -2. Sarri – Mancini: 1 – 3. Pur mantenendo la stessa differenza reti-insulti (“frocio” e “finocchio” li contiamo insieme) il risultato della gara tra i giocatori è meno perentorio di quello del match tra i mister, ovvero tra l’allenatore di villaggio e l’allenatore da Village People, parafrasando le reciproche cortesie. In una partita tutta all’attacco, in cui quell’omaccione bruto e cattivo di Sarri si è macchiato del delitto di lesa mancinità, a ben ragionare l’allenatore dell’Inter è stato almeno quantitativamente più discriminatorio di quello del Napoli: checché (attenzione all’accento, non voglio querele) si dica, la costituzione afferma che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, certamente senza distinzione di “sesso”, ma anche di “condizioni personali”, e quindi pure di età. E l’articolo 11 del codice di giustizia sportiva è quasi onnicomprensivo nel definire i comportamenti discriminatori. Ma anche se non lo dicessero la più alta e la più specifica fonte giuridica, sembra logico che dare del “vecchio” (e in un certo senso anche del “cazzone”) sia discriminatorio; tralasciando il particolare che cinque anni di differenza tra l’uno e l’altro allenatore sembrano pochi per poter giocare al monello che canzona il vecchietto. Ma discrimina anche l’anatema manciniano “tornatene ad allenare in C”. Come dire, tu Sarri, parvenu dell’arte pedatoria, hai allenato anche in C (veramente old big dick ha fatto di peggio, avendo allenato anche in seconda categoria); io Mancini invece ho calcato soltanto stadi con bandierine filigranate e reti di seta, senza sporcarmi i mocassini in campetti di paese paludosi e diserbati a guidare dopolavoristi, giovani di poche speranze e quasi ex giocatori. Perciò ecco qui la discriminazione verso Sarri anche per “condizioni sociali”, sempre alla fulgida luce dell’articolo 3 della costituzione. Per inciso, la carriera degli allenatori di calcio in Italia ricorda un po’ per classismo quella dei militari in epoche neanche troppo remote. Un nobile rampollo iniziato alla vita delle armi partiva direttamente da ufficiale, anche se era un imbelle che non sapeva dare ordini nemmeno al suo cavallo. Per un giovane popolano ciò era impensabile: veniva reclutato nella truppa e, soltanto se aveva grandi doti di comando e una enorme dose di fortuna, forse col tempo riusciva a scalare la gerarchia e vestire l’uniforme da ufficiale. Per gli allenatori di calcio succede qualcosa di simile, ma invece della nobiltà conta la precedente carriera da giocatore. Se uno è stato un calciatore di altissimo livello, come allenatore sembra debba partire di diritto da “ufficiale”, cioè allenando subito al top. E nessuna regola può essere d’ostacolo: può farlo, ovviamente ogni riferimento non è casuale, anche se non ha ancora il patentino di allenatore di prima categoria o se nel corso dello stesso anno è stato tesserato con un’altra squadra. Del resto, come diceva Albertone nei panni del marchese del Grillo, “io so’ io, e voi non siete un cazzo” (o, eventualmente, non sei che un “cazzone”, come nel caso di Sarri). Se, invece, il neotrainer è stato un semplice calciatore, inizierà da allenatore-soldato semplice. E, come tutti gli aristocratici di questo mondo, un allenatore di sangue blu (o  blucerchiato, biancoceleste, rossoblù, nerazzurro… Sarà un caso che Mancini gira quasi sempre squadre con qualcosa di tendente al blu?) non smetterà mai di guardare con altera supponenza un suo parigrado plebeo che viene dalla gavetta. O, nel caso, dall’Associazione Calcio Sansovino. Passando dal discrimine al crimine, si sussurra negli ambienti sportivi e nei salotti letterari che la quasi assoluzione di Sarri sia stata dettata da un’analisi glottologica dell’uno-due “frocio-finocchio”. L’ardita nonché erudita elucubrazione del giudice sportivo Gianpaolo Tosel avrebbe avuto lo scopo di tacitare chi vorrebbe mandarlo definitivamente in pensione (a dir la verità ci sarebbe già da sedici anni, ma si sa, i magistrati fino alla quarta età sono obbligati a furor di popolo a donare alla comunità il loro evidentemente insostituibile sapere). Il nostro esegeta del diritto sportivo sarebbe quindi stato più sottile di quel che subito si era pensato leggendo la sentenza: avrebbe infatti fondato il mite verdetto sull’ambiguità, non sessuale, ma semantica. E l’epiteto contestato si presta davvero a varie interpretazioni. Innanzi tutto  per alcuni il termine “frocio” deriva da “floscio”. E floscissimo è in effetti il ciuffo sale, cacio e pepe del tecnico nerazzurro. Per altri l’etimo va trovato in “frogione”, dalle grosse froge. E nell’episodio incriminato il Mancio furioso è stato immortalato con narici dilatate e sbuffanti più di un toro impazzito. Per altri ancora con quel termine si indicavano i “f(e)roci” lanzichenecchi invasori di Roma, che nel prendersi il bottino di guerra sembra non facessero troppe distinzioni tra uomini e donne: e la compagine interista non è indubitabilmente nordica e feroce? Non è calata al sud a mettere a ferro e fuoco la porta del Napoli e a conquistare il San Paolo? Ma questo filo (filo)logico è solo un’ipotesi sul ragionamento sotterraneo del giudice. Nella motivazione ufficiale della sentenza Tosel afferma invece un altro principio giuridico, in realtà molto più spericolato: visto che Mancini è notoriamente etero, non c’è discriminazione. In altre parole, generalizzando la portata del principio, se si dice qualcosa di offensivo a qualcuno ma ciò che si dice non corrisponde al vero, non c’è illecito. Quindi se uno dice ad un altro “finocchio”, ma quest’ultimo non è foeniculum vulgare ma invece è ad esempio  phoenicius nobilis, tutto a posto. Interessante. Peccato che nel diritto penale esista un principio (articolo 596 del codice penale, pur limitato ad alcuni casi e con la recente depenalizzazione ancor più ridimensionato) secondo cui se si dice qualcosa di offensivo di qualcuno e si dimostra che questa cosa è vera, non c’è illecito: questo istituto si chiama exceptio veritatis. Ed è l’esatto opposto di quello applicato dal nostro giudice sportivo, che invece plasma questa originale exceptio falsitatis, per quel che è dato sapere principio inedito nei sistemi giuridici di ogni tempo e paese. In buona sostanza per il lesto Tosel chi dice il falso di qualcuno non merita attenzione e quasi nemmeno sanzione. Così, se applicassimo insieme e tirassimo un po’ le due exceptiones, nessuno verrebbe mai punito per illeciti contro l’onore: sarebbe scriminante – ma non discriminante – offendere dicendo il falso come lo sarebbe dicendo la verità. Ma in ogni caso, in tutta la querelle quello che ci guadagna alla fine è comunque l’offeso Mancini. E non perché è riuscito con i suoi piagnistei a destabilizzare per un po’ l’ambiente calcistico napoletano. Ma perché è la prima persona al mondo che è riuscita ad ottenere una sentenza che certifica che non è gay.

Omicidio Willy. La via del processo è lastricata di buone (preter)intenzioni.

La procura di Velletri nel caso di Willy Monteiro Duarte dopo qualche giorno ha cambiato l’imputazione da omicidio preterintenzionale a omicidio volontario aggravato dai futili motivi.
Ma che differenza c’è tra l’omicidio preterintenzionale e quello doloso o volontario o, come viene chiamato in altri ordinamenti, intenzionale?
Uno dei principi cardine del diritto penale è che conta quello che si è fatto ma anche quello che si voleva fare.
Nell’omicidio preterintenzionale (che va oltre l’intenzione, in latino praeter intentionem) il responsabile vuole soltanto far del male ma non vuole la morte della vittima, morte che però si verifica a causa dell’azione violenta, quest’ultima sì voluta.
Nell’omicidio volontario il responsabile vuole la morte della vittima oppure, anche se non ne vuole la morte, immagina e accetta la possibilità, il rischio, di ucciderla con la propria azione violenta.
La linea di confine quindi spesso è questa: nell’omicidio preterintenzionale la morte della persona aggredita non è né prevista né voluta dal responsabile, nell’omicidio volontario è prevista ma può essere non voluta.
La differenza si pone anche in termini di pena minima prevista per ciascun reato, nel rapporto di più del doppio tra l’uno e l’altro: l’omicidio preterintenzionale è punito con una pena base di almeno dieci anni di reclusione, quello volontario di almeno ventun anni.
Ipoteticamente però se fosse stata mantenuta una contestazione di omicidio preterintenzionale e i responsabili dell’uccisione di Willy avessero scelto il processo abbreviato e magari avessero ottenuto le attenuanti generiche prevalenti, non è impossibile che avessero potuto ottenere una pena finale di nemmeno quattro anni e mezzo. Pena che comunque non sarebbe stata scontata del tutto, con le agevolazioni che la legge prevede anche nella fase di esecuzione della pena. In nemmeno un paio d’anni avrebbero potuto essere liberi o semiliberi. Se poi, sempre ragionando per ipotesi, per qualche miracolo giudiziario (l’ottenimento di un’ulteriore attenuante) la pena fosse scesa sotto i quattro anni i responsabili avrebbero potuto addirittura non entrare mai in carcere.
Nell’omicidio di Colleferro, caratterizzato da una furia ingiustificata, poteva venire fin dall’inizio più di un dubbio che l’imputazione corretta potesse essere quella di omicidio volontario invece che preterintenzionale. Non è fuori luogo pensare che la pressione dei media e dell’opinione pubblica abbia contribuito a far cambiare in corsa una scelta giudiziaria “prudenziale”, come è stata definita dallo stesso giudice per le indagini preliminari che l’ha avvalorata.
Peraltro nel caso Willy per ora non è stato focalizzato da nessuno (ma si spera lo sarà nel prosieguo del procedimento) un altro aspetto giuridico che potrebbe avere una certa rilevanza, la cosiddetta “minorata difesa”, che si ha nell'”avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”. Questa circostanza aggravante sembrerebbe non meno calzante all’omicidio in questione di quella dei futili motivi, già contestata.
Come ulteriore spunto di riflessione riporto la più recente decisione della corte di cassazione sulla materia (sentenza n. 11946/2020), in cui è stato deciso – in un caso abbastanza analogo a quello di Willy ma all’apparenza tutto sommato più lieve quanto al comportamento violento – che l’imputazione corretta era quella ben più grave di omicidio volontario: “Si configura il delitto di omicidio volontario – e non quello di omicidio preterintenzionale, caratterizzato dalla totale assenza di volontà omicida – quando la condotta, alla stregua delle regole di comune esperienza, dimostri la consapevole accettazione da parte dell’agente anche solo dell’eventualità che dal suo comportamento possa derivare la morte del soggetto passivo. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza del giudice di merito che aveva ravvisato il delitto di omicidio preterintenzionale nella condotta dell’agente che, eseguendo una presa al collo da dietro della vittima, aveva premuto con forza eccessiva, o comunque per un tempo superiore ai sette secondi, le ghiandole barocettoriali della stessa, così interrompendo l’afflusso di sangue al cervello e provocando l’arresto cardiaco).”
Rapportando il principio all’omicidio di Colleferro, sette secondi di strangolamento devono essere considerati meno pericolosi di venti minuti di pestaggio?
Quindi, al di là dei tecnicismi, la domanda fondamentale che ci si deve porre nel caso Willy potrebbe quasi apparire retorica (se saranno confermati in istruttoria i dati emersi finora): più uomini robusti, praticanti ed esperti di arti marziali, che picchiano per venti minuti un ragazzino, anche con calci alla testa, anche quando questo era a terra incosciente, non immaginavano che poteva morire?

La bilancia e lo Spada

“La lacuna c’è, anche quando esista una norma per rimediarvi, finché coloro che non hanno, in base a questa, il potere non provvedono effettivamente a reintegrare o sostituire l’istituzione caduta”. Mentre leggevo subito dopo i fatti su vari media gli articoli sul motivo dell’inerzia dello stato davanti all’aggressione di Roberto Spada, esponente di un clan mafioso fascistoide, verso Daniele Piervincenzi, giornalista di Nemo, mi è tornato in mente questo concetto di Santi Romano. Il pensiero, contenuto nelle Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento statale, paradossalmente pubblicate in pieno periodo fascista, sottintende che, in parole povere, è inutile avere le leggi se chi deve applicarle non lo fa. La parafrasi altrettanto sempliciotta di questo principio la utilizzano spesso le forze dell’ordine per spiegare confidenzialmente che loro arrestano sì i delinquenti, ma poi i giudici, a volte evidentemente più azzeccagarbugli degli avvocati, glieli rimettono in libertà. Fino a qui siamo di fronte alla secolare distinzione tra le due facce della giustizia: toga e divisa, law e order, bilancia e spada. Ma mi ha fatto un po’ tristezza leggere quegli approfondimenti giornalistici paragiuridici – che i mezzi di informazione, come spesso succede, hanno poi scopiazzato uno dall’altro – secondo cui nel caso Spada lo stato era legalmente impotente. Ai sensi del codice di procedura penale non si sarebbe cioè potuto in alcun modo arrestare, fermare o sottoporre a misura cautelare questo tizio. Quindi non perché la legge non veniva applicata, ma perché proprio non c’era una legge che lo permettesse. Ma siamo davvero oltre il caso prospettato da Santi Romano? In realtà no, ci siamo dentro in pieno, perché la legge adatta per mettere le manette a Spada c’era eccome. Per fortuna dopo un po’ l’hanno trovata anche le autorità preposte. La legge giusta in effetti esiste quasi sempre. In Italia nessuno sa esattamente quante leggi abbiamo. Ci hanno provato in molti a contarle e ogni volta esce un numero diverso. Cinquantamila, centomila? Di sicuro tantissime. E tra così tante ce ne sarà pure una applicabile al caso concreto, no?  Nel caso Spada ce n’era probabilmente addirittura più d’una tra cui scegliere fin da subito. In merito a questa aggressione la contestazione delle sole lesioni (che, considerate autonomamente, davano poco margine all’autorità giudiziaria) era proprio il minimo sindacale. Roba da patteggiamento natalizio. Guardando appena intorno c’erano però la violenza privata, l’aggravante mafiosa, le misure di prevenzione, la normativa sulla detenzione di armi… Sì, perché il manganello fa molto coreografia fascista, ma, anche se in relazione a questo caso non l’ho ancora letto su alcun giornale, è un’arma impropria, che come tale va trattata. Per fortuna l’episodio è stato ripreso e divulgato e lo sdegno è salito. E a volte questo olia i meccanismi della burocrazia giudiziaria. Così un vigliacco (tra le altre cose) è stato assicurato alla giustizia. Non un duro. Uno che non ci assomiglia nemmeno a un duro. Perché colpire a tradimento un altro che ti sta parlando e poi inseguirlo e picchiarlo armato di sfollagente mentre barcolla e sanguina è da piccoli vigliacchi. Un duro invece è un cronista che ha il coraggio di andare nella tana dei lupi con in mano soltanto un microfono, non un manganello. Peraltro non mi pare di aver visto Spada provare a dare testate ai carabinieri che lo portavano via. Bene così. Giornalisti e programmi coraggiosi sono armi essenziali a favore della democrazia e contro le mafie. Del resto, come presagiva già Jules Verne, Nemo vince contro la piovra.