La procura di Velletri nel caso di Willy Monteiro Duarte dopo qualche giorno ha cambiato l’imputazione da omicidio preterintenzionale a omicidio volontario aggravato dai futili motivi.
Ma che differenza c’è tra l’omicidio preterintenzionale e quello doloso o volontario o, come viene chiamato in altri ordinamenti, intenzionale?
Uno dei principi cardine del diritto penale è che conta quello che si è fatto ma anche quello che si voleva fare.
Nell’omicidio preterintenzionale (che va oltre l’intenzione, in latino praeter intentionem) il responsabile vuole soltanto far del male ma non vuole la morte della vittima, morte che però si verifica a causa dell’azione violenta, quest’ultima sì voluta.
Nell’omicidio volontario il responsabile vuole la morte della vittima oppure, anche se non ne vuole la morte, immagina e accetta la possibilità, il rischio, di ucciderla con la propria azione violenta.
La linea di confine quindi spesso è questa: nell’omicidio preterintenzionale la morte della persona aggredita non è né prevista né voluta dal responsabile, nell’omicidio volontario è prevista ma può essere non voluta.
La differenza si pone anche in termini di pena minima prevista per ciascun reato, nel rapporto di più del doppio tra l’uno e l’altro: l’omicidio preterintenzionale è punito con una pena base di almeno dieci anni di reclusione, quello volontario di almeno ventun anni.
Ipoteticamente però se fosse stata mantenuta una contestazione di omicidio preterintenzionale e i responsabili dell’uccisione di Willy avessero scelto il processo abbreviato e magari avessero ottenuto le attenuanti generiche prevalenti, non è impossibile che avessero potuto ottenere una pena finale di nemmeno quattro anni e mezzo. Pena che comunque non sarebbe stata scontata del tutto, con le agevolazioni che la legge prevede anche nella fase di esecuzione della pena. In nemmeno un paio d’anni avrebbero potuto essere liberi o semiliberi. Se poi, sempre ragionando per ipotesi, per qualche miracolo giudiziario (l’ottenimento di un’ulteriore attenuante) la pena fosse scesa sotto i quattro anni i responsabili avrebbero potuto addirittura non entrare mai in carcere.
Nell’omicidio di Colleferro, caratterizzato da una furia ingiustificata, poteva venire fin dall’inizio più di un dubbio che l’imputazione corretta potesse essere quella di omicidio volontario invece che preterintenzionale. Non è fuori luogo pensare che la pressione dei media e dell’opinione pubblica abbia contribuito a far cambiare in corsa una scelta giudiziaria “prudenziale”, come è stata definita dallo stesso giudice per le indagini preliminari che l’ha avvalorata.
Peraltro nel caso Willy per ora non è stato focalizzato da nessuno (ma si spera lo sarà nel prosieguo del procedimento) un altro aspetto giuridico che potrebbe avere una certa rilevanza, la cosiddetta “minorata difesa”, che si ha nell'”avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”. Questa circostanza aggravante sembrerebbe non meno calzante all’omicidio in questione di quella dei futili motivi, già contestata.
Come ulteriore spunto di riflessione riporto la più recente decisione della corte di cassazione sulla materia (sentenza n. 11946/2020), in cui è stato deciso – in un caso abbastanza analogo a quello di Willy ma all’apparenza tutto sommato più lieve quanto al comportamento violento – che l’imputazione corretta era quella ben più grave di omicidio volontario: “Si configura il delitto di omicidio volontario – e non quello di omicidio preterintenzionale, caratterizzato dalla totale assenza di volontà omicida – quando la condotta, alla stregua delle regole di comune esperienza, dimostri la consapevole accettazione da parte dell’agente anche solo dell’eventualità che dal suo comportamento possa derivare la morte del soggetto passivo. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza del giudice di merito che aveva ravvisato il delitto di omicidio preterintenzionale nella condotta dell’agente che, eseguendo una presa al collo da dietro della vittima, aveva premuto con forza eccessiva, o comunque per un tempo superiore ai sette secondi, le ghiandole barocettoriali della stessa, così interrompendo l’afflusso di sangue al cervello e provocando l’arresto cardiaco).”
Rapportando il principio all’omicidio di Colleferro, sette secondi di strangolamento devono essere considerati meno pericolosi di venti minuti di pestaggio?
Quindi, al di là dei tecnicismi, la domanda fondamentale che ci si deve porre nel caso Willy potrebbe quasi apparire retorica (se saranno confermati in istruttoria i dati emersi finora): più uomini robusti, praticanti ed esperti di arti marziali, che picchiano per venti minuti un ragazzino, anche con calci alla testa, anche quando questo era a terra incosciente, non immaginavano che poteva morire?