Domicidio legale

Domicidio legale

Forse avrete sentito parlare del concetto di domicidio: è definibile come l’annichilimento fisico, psicologico e sociale di persone in assoluta difficoltà economica causato dalla negazione del diritto all’abitazione. In altre parole – anch’esse povere, per rimanere in tema – è il lasciare vivere per strada, e lì consumarsi, gli homeless, i clochard, i senzatetto. I barboni. Brutta parola questa, ma appunto rende meglio la bruttezza di questo tipo di vita.
Non c’è pistola fumante nel domicidio. C’è qualcosa di più simile per lentezza alla goccia cinese (soprattutto se, nelle notti di pioggia, un riparo di fortuna non è ben coperto). L’omissione permanente della società civile del compimento dei propri doveri genera questo fenomeno.
Qualche volta però il domicidio non è cagionato da un’omissione della società ma, viceversa, dall’azione della burocrazia. In questo caso si può parlare di domicidio legale: la legge applicata per annientare chi non ha nulla, nemmeno un quattro mura e un tetto.
E sulle sponde del Lario le istituzioni sembra abbiano fatto un voto al domicidio legale: da lì la cosiddetta crociata comense contro i clochard.
È soltanto di pochi anni fa la notizia che il sindaco lariano in periodo natalizio aveva vietato ai volontari di portare la colazione ai senzatetto che dormivano sotto il portico della ex chiesa di san Francesco. I media non hanno approfondito se poi gli Spiriti del Natale Passato, Presente e Futuro abbiano fatto cambiare idea a questo novello Ebenezer Scrooge in fascia tricolore.
Sempre a Como don Roberto Malgesini, il prete ucciso quest’anno, per aver portato la colazione ai senzatetto era stato sanzionato con una multa, peraltro poi regolarmente pagata.
Un paio di mesi fa un assessore aveva portato via una coperta ad un homeless: giuridicamente si tratterebbe di un abuso di ufficio, moralmente di una vile porcata. Dove? Ancora a Como.

Como

E di nuovo a Como ieri un senza fissa dimora sessantatreenne essendosi allontanato dal suo domicilio è stato sanzionato sulla base della normativa anti-covid (nell’inedita interpretazione estensiva anti-clochard). Il problema nasce dal fatto che appunto Pasquale Giudice, questo il nome del pericoloso peripatetico, vive per strada. Sanno gli zelanti gendarmi che, ai sensi dell’art. 43 del codice civile, “il domicilio di una persona ènel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi”? Si ignora quali siano gli interessi di Pasquale e si presume che i suoi affari siano limitati al maneggio di pochi spiccioli, ma tant’è, il suo domicilio è a Porta Torre, ovvero la zona di Como dove di solito elemosina. Quindi Pasquale non era sanzionabile: era per strada, dove ha la sede principale dei suoi affari, dei suoi interessi, della sua questua e della sua vita. Nessun allontanamento dal suo domicilio, quindi. Deve essere indicato un indirizzo civico? Magari lo avesse realmente. Ed anche i burocrati in uniforme dovrebbero sapere che ad impossibilia nemo tenetur, nessuno è obbligato all’impossibile.
Ah, le leggi.
Di reperibilità dei senza fissa dimora parlano l’art. 2 c.3 l. n.1228/1954, l’art.3 c.38 l. n.94/2009, la circolare min.int. n.19 del 17/09/2009. Reperire chi non ha un recapito vi sembra fantasia? I giuristi la chiamano fictio iuris ma la giudicano allo stesso modo.
Invece di diritto all’abitazione parlano fonti giuridiche che stanno ben più in alto, ad esempio la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 25) e la Costituzione italiana (art. 47). La corte costituzionale poi ha affermato che “il diritto a una abitazione dignitosa rientra, innegabilmente, fra i diritti fondamentali della persona” (sentenza n. 119/1999).
Certo dormire sotto le stelle è romantico e piacevole d’estate in riva ad un lago. Ma poche volte in inverno. Probabilmente mai se il lago è quello di Como.
P.s: in realtà non credo abbiate sentito prima di questo articolo la parola domicidio. È soltanto onomaturgia. Semplicemente uno scherzo linguistico. Insomma, l’ho inventata io qui, non esiste nei dizionari né nei codici. Ma dovrebbe esistere. O almeno ne dovrebbe esistere una analoga.
Però, a pensarci bene, ora esiste.

Condannato albanese che baciava il pene del figlio. La difesa: «È una tradizione dell’Albania!»

Condannato albanese che baciava il pene del figlio. La difesa: «È una tradizione dell’Albania!»

Uno dei casi giudiziari degli ultimi anni riguardante cittadini albanesi in Italia è diventato abbastanza famoso nella penisola, mentre non è molto noto in Albania. Parliamo dell’uomo che è stato accusato di aver praticato sesso orale al figlio di cinque anni. La contestazione della Procura era quella di violenza sessuale aggravata “perché in più occasioni abusando della sua autorità di padre, del divario di età e dell’immaturità personologica del figlio … correlata alla sua minore età e con violenza, abbassandogli repentinamente i pantaloni e gli slip, costringeva ed induceva costui a subire plurimi atti sessuali, consistiti in palpeggiamenti alle parti intime ed in rapporti orali. Con l’aggravante del fatto commesso su minore di anni 10”. Tale reato, che è punito sulla base degli articoli 609 bis, ter e quater del codice penale, prevede una pena che può arrivare a quattordici anni di carcere nel caso in cui la vittima abbia meno di dieci anni.
Occorre sottolineare che i familiari dell’uomo fin da subito mostravano un sentimento di stupore verso un’accusa del genere e lo stesso bambino non appariva provare disappunto ma anzi cercava il padre quando questo era in carcere. Anche la moglie venne processata con le stesse accuse, per non aver vigilato ed essere stata quindi in qualche modo complice, ma venne poi assolta.
Il fatto è avvenuto nel 2010 a Reggio Emilia, ma il processo si è concluso nel 2019. Come è andata all’imputato? Riassumendo, nel primo grado di giudizio il Tribunale di Reggio Emilia ha assolto l’uomo con sentenza del 21 novembre 2012. In secondo grado la Corte di appello di Bologna il 19 aprile 2017 ha confermato l’assoluzione. In terzo grado la Corte di cassazione a Roma il 29 gennaio 2018 ha annullato la sentenza della Corte di appello di Bologna rinviando ad altra sezione della stessa corte di appello per un nuovo giudizio. Nel nuovo giudizio di secondo grado il 16 maggio 2019 la Corte di appello di Bologna questa volta ha condannato definitivamente l’uomo a due anni e otto mesi di reclusione (oltre al risarcimento del danno da versare al figlio).
Il caso, come detto, ha suscitato scalpore in Italia anche tra i non addetti ai lavori, ne hanno parlato vari media e ha aperto tantissime discussioni. Il processo è stato oggetto di anche di vari articoli specialistici ed è anche stato oggetto di analisi in lezioni tenute presso la Scuola della magistratura italiana.
Ma vediamo quali fatti sono statti concretamente provati nel procedimento penale.
L’addetta alla cucina dell’asilo nido nel quale era inserito il bambino ha spiegato le circostanze della scoperta che ha portato al processo. In un contesto giocoso (preparazione di una torta), in una atmosfera serena e priva di tensione, mentre uno dei bambini riferiva di una sua birichinata consistente nel girare nudo per casa, che avrebbe suscitato l’ilarità dei genitori, con altrettanta spontaneità il bambino albanese aveva detto riferendosi al padre “a me me lo ciuccia”. Il bambino aveva poi simulato il gesto prendendo in mano un cucchiaio e mettendoselo in bocca. La frase aveva naturalmente scatenato la preoccupazione e la curiosità dell’ausiliaria che aveva chiamato una collega per avere sostegno nel cercare di capire a cosa esattamente facesse riferimento il bambino. La frase era stata quindi ripetuta: “me lo ciuccia come un biberon” seguita dal gesto di “succhiare” e “tirare su e giù” la coda del cucchiaio senza peraltro tenere in bocca l’oggetto più di tanto.
Pochi giorni dopo l’acquisizione della notizia di reato veniva disposta dal pubblico ministero una registrazione audiovisiva interna all’abitazione dell’imputato. In essa si può vedere il padre ed il figlio sdraiati sul letto matrimoniale di una camera; l’adulto fa zapping in televisione e ad un certo punto pare che tocchi fugacemente il bambino nella zona genitale. L’uomo veniva quindi arrestato.
Veniva sentita la sorella diciassettenne del bambino, la quale faceva presente che era un gesto consueto del padre quello di baciare (non succhiare) l’organo genitale del figlio, che non mostrava alcun problema: una pratica considerata normale nella loro famiglia, fatta per affetto verso i bimbi maschi fino ai quattro, cinque anni da parte dei padri e dei nonni maschi ma vietata alle femmine della famiglia.
Veniva prodotto dalla difesa dell’imputato un documento, privo di autenticazione ufficiale ma apparentemente proveniente da un ufficio pubblico albanese, in cui si afferma che nelle zone rurali della prefettura di Vlore esisterebbe ancora la tradizione per cui un padre manifesta affetto per il figlio accarezzandolo nelle parti intime “esprimendo così la gloria della prosperità e continuità della generazione”.
Pochi giorni dopo l’arresto dell’uomo venivano disposte intercettazioni ambientali nella sala di ascolto del carcere di Reggio Emilia, intercettazioni che mostrano come egli, parlando con i congiunti, difenda la propria innocenza negando di aver compiuto atti dalla valenza anche minimamente sessuale e facendo presente come si trattasse degli stessi gesti di affetto che avevano avuto con lui il padre ed il nonno. Dice, riferendosi al suo pene: “a me lo tiravano”. E a tal proposito, ancora intercettato in carcere mentre parla con la moglie, ricorda un episodio simile avvenuto sempre sul figlio, in cui un’altra persona “gliel’ha tirato così quando è venuto e il bimbo si è messo a piangere”. Parla poi, sembra di capire, di una conversazione avuta con un altro detenuto, romeno: il padre del romeno chiedeva al figlio il perché l’albanese fosse in carcere e lui gli rispondeva perché aveva baciato il figlio in quel modo. Il padre del romeno allora diceva al figlio “anch’io ti ho baciato così. Noi i figli li baciamo così”, nei Balcani per il maschio si fa così”. L’imputato in generale non nega il fatto contestato ma non capisce come gli possa essere rivolta un’accusa di pedofilia per un bacio di pochi secondi al pene del figlio e si mostra stupito delle leggi italiane: “le leggi che sono qua, dio santo!”. Sempre sotto intercettazione l’imputato viene sentito parlare di una conversazione che avrebbe avuto con una persona che gli ribadiva la gravità del fatto per “aver ciucciato” il pene del figlio. Al che l’imputato avrebbe risposto: “ma guarda che non era ciuccio, ciuccio significa quando dura dei minuti, io invece l’ho soltanto baciato” e, parlando della normalità del gesto, “anche in tutto il Ducat [località dell’Albania] diranno la stessa cosa”. L’uomo continua, insistendo di non essere pedofilo, malato o pazzo: “Quello che ho fatto è perché… è perché così faceva anche mio padre. Noi eravamo cinque figli… Eravamo cinque maschi e mio padre…”. Alla domanda “fino a che età ti ha baciato?” l’imputato rispondeva: “considera che avevo circa otto anni, che io ricordi”. Parla del fatto che il bambino possa essere baciato allo stesso modo dai parenti, cosa che viene considerata normale. Dice anche: “se è così come dite voi, che io possa aver fatto – chiedo scusa del termine – un “bocchino”… Ma il “bocchino” non si fa in cinque secondi”. Un altro albanese, mentre parla con l’imputato, dice che per le consuetudini albanesi questi gesti sono normali e che “se tu fossi stato nel tuo paese non saresti stato perseguitato”.
Il padre del bambino non si dà pace per quello che lui ritiene un gesto di assoluta irrilevanza giuridica e morale, per il quale in carcere lo considerano un pedofilo e lo minacciano.
Tutti concordano che l’atteggiamento del bambino, mostrato dalle riprese audiovisive, era di assoluta indifferenza al gesto del padre, continuava anche a mangiare dal biberon.
Guardando alla valutazione giuridica che hanno dato i vari giudici che si sono occupati del caso, si può fare questa sintesi.
Il tribunale di Reggio Emilia afferma, dal punto di vista materiale, che non possono esserci dubbi che “nel nostro ordinamento il contatto con l’organo genitale maschile, il bacio o ancor più l’inserimento in bocca del pene integri un atto sessuale in quanto invasivo della sfera sessuale, e integrante un rapporto del corpo dell’agente con parti del corpo della vittima naturalmente idonee a produrre stimolazione sessuale”. Quanto però all’aspetto psicologico, mancherebbe nella fattispecie qualsiasi “‘elemento aggiuntivo rispetto alla materialità del fatto che induca a pensare che la condotta dell’imputato, nato e cresciuto in un diverso contesto culturale, fosse accompagnata dalla coscienza del carattere oggettivamente sessuale secondo la nostra cultura di riferimento, del bacio e tanto più del succhiotto sul pene del bambino anche quando effettuato dal genitore, per cui detta condotta integra di regola il reato di violenza sessuale salva la ricorrenza di specifiche e univoche circostanze di contorno idonee a provare l’assenza di qualsivoglia stimolo sessuale alla base del comportamento”. In altre parole nel fatto dell’imputato ci sarebbe l’elemento materiale, ma mancherebbe quello psicologico. Il punto centrale che porta questo tribunale all’assoluzione è, in altre parole, la diversa cultura dell’imputato, intesa ovviamente non come istruzione derivante dagli studi compiuti, ma in sostanza come insieme dei valori giuridici, morali, sociali e consuetudinari che gli appartengono in quanto proveniente da un altro paese o appartenente ad un altro popolo.
La Corte di appello di Bologna (nel suo primo giudizio) ha di nuovo assolto l’uomo, ma ragionando diversamente.
Ha ritenuto che la condotta messa in atto dall’uomo si concretasse in meri ‘‘gesti di affetto e di orgoglio paterno nei confronti del figlio maschio, assolutamente privi di qualsiasi implicazione di carattere sessuale e indicati come rispondenti a tradizioni di zone rurali interne dell’Albania, pese di origine degli imputati”. La Corte di appello esclude quindi sia l’elemento soggettivo – quindi il dolo – non essendo gli atti mirati a soddisfare ‘‘qualche forma di concupiscenza sessuale nei confronti del minore”, che l’elemento oggettivo, ritenendo che “l’atto commesso dall’imputato non ha in sé alcun intrinseco significato sessuale, né alcuna obiettiva attitudine offensiva dell’altrui sfera sessuale, risultando esso una commistione di abitudini del gruppo sociale di appartenenza con una chiara manifestazione ludica, ultra affettiva e dimostrativa dell’orgoglio per l’unico figlio maschio”.
In altre parole mentre il giudice di primo grado esclude soltanto l’elemento psicologico del reato, quello di secondo grado esclude elemento psicologico ed elemento materiale: nell’uomo non c’è volontà di commettere il reato ma nemmeno la sua condotta ha valenza illecita, in quanto non può essere considerata come “sessuale”.
La Corte di cassazione di Roma, supremo organo giurisdizionale in Italia, ha ritenuto invece che “la dichiarata ignoranza da parte degli imputati e della loro famiglia, circa l’offensività della condotta posta in essere ai danni del figlio minore, così come l’ignoranza sull’esistenza della norma penale incriminatrice di essa non appare idonea ad integrare una causa di non colpevolezza degli imputati stessi che oltre a risultare ben integrati nel tessuto sociale ove vivevano e lavoravano da anni (tanto che i fatti emergono nel contesto scolastico ove il proprio figlio era collocato), allegano a propria discolpa una ignoranza che non assumerebbe rilevanza anche nel paese di origine, ove i medesimi fatti risultano sanzionati penalmente”. La corte di cassazione accoglie quindi il ricorso della procura generale presso la corte di appello di Bologna, valutando che “tale presunta tradizione sarebbe in contrasto anche con le prescrizioni del codice penale albanese (artt. 100 e ss.), risulterebbe smentita finanche in Albania (risultando, anche a volere accedere alla tesi difensiva, limitata solo alle zone rurali, e limitata alla mera carezza bene-augurale) e rispetto alla quale non poteva essere neppure ammessa una non consapevolezza della illiceità da parte degli imputati, che erano da tempo residenti in Italia e non potevano ignorarne le leggi, se non inescusabilmente”. Tra l’altro, anche relativamente al profilo oggettivo, secondo la Corte di cassazione, la Corte di appello non avrebbe valutato le prove emerse, in particolare i filmati acquisiti e le testimonianze delle insegnanti, considerate pienamente attendibili in primo grado, dalle quali emerge come il bambino avrebbe testualmente descritto la condotta del padre affermando che costui ‘‘gli succhiava il pisellino come un biberon” e avrebbe mimato altresì la condotta mettendosi in bocca un cucchiaino e ‘‘facendo su e giù” con lo stesso. Quindi, riassumendo, l’imputato non poteva invocare a sua discolpa né la carenza di offensività sessuale della sua azione, né l‘ignoranza della legge penale. Legge penale che peraltro anche in Albania – come rileva la Corte di cassazione – vieta atti sessuali con i bambini (anche se in realtà la Corte non dice nulla su come atti simili a quelli compiuti a Reggio Emilia sarebbero valutati in Albania). Per queste ragioni il supremo organo giurisdizionale italiano ha quindi rinviato alla Corte di appello di Bologna il processo, affinché venisse celebrato un nuovo giudizio di secondo grado presso un’altra sezione della stessa corte, questa volta però sulla base delle indicazioni date dalla Cassazione fatta con la sentenza di rinvio. In altre parole la Corte di Bologna a questo punto non poteva discostarsi da tali indicazioni: di fatto la corte di appello, come succede per legge nei casi di rinvio, è vincolata ad una determinata impostazione dettata da una corte superiore (la Cassazione, appunto). Ed infatti la Corte di appello di Bologna ha condannato definitivamente a due anni e otto mesi l’uomo.
Ma quali sono i principi espressi da questa importante sentenza (la numero 29613/2018 della Cassazione) validi per i cosiddetti reati culturalmente orientati (o motivati), cioè quei reati che possono essere commessi da un soggetto, di solito straniero, che agisce seguendo la sua diversa cultura di provenienza?
Ecco i criteri di valutazione formulati dalla Cassazione (e già suggeriti da Fabio Basile, professore di diritto penale dell’università di Milano) che tutti i giudici italiani dovrebbero tener presenti nella valutazione di questo tipo di reati (usando quello che è stato chiamato “test culturale”):
1) natura del bene offeso. Secondo questo principio la “difesa culturale” non assume alcuna idoneità ad esonerare l’imputato da responsabilità qualora il reato comporti gravi offese a beni fondamentali della persona (creando una sorta di sbarramento invalicabile), quali vita, incolumità, libertà di autodeterminazione in ambito sessuale ecc… Si guarda quindi al bene giuridico offeso ed al grado di offesa al medesimo;
2) natura della norma culturale. Va valutato se la norma in adesione della quale è stato commesso il reato trovi un riscontro anche in una corrispondente norma di diritto nell’ordinamento giuridico del paese di provenienza dell’immigrato. In questo caso si dovrà sicuramente ritenere tale circostanza rilevante quanto alla consapevolezza della antigiuridicità della condotta e quindi alla colpevolezza del fatto commesso nell’imputato. Un altro parametro relativo a questo aspetto riguarda il carattere vincolante della norma culturale straniera: occorre valutare cioè se essa è rispettata in modo omogeneo da tutti i membri del gruppo culturale o, piuttosto, risulta desueta e poco diffusa anche in quel contesto;
3) grado di inserimento dell’immigrato nella cultura del paese di arrivo e grado di adesione alla cultura del paese di origine. Risulta ovvio che la credibilità di una difesa basata sulla cultura di origine sia inversalmente proporzionale al grado di integrazione dell’imputato nella cultura del paese di fronte ai cui giudici è chiamato a rispondere del reato.
Un altro onere generale che dovrebbero porsi i giudici è quello di “tradurre” i comportamenti sotto esame in “equivalenti culturali”: il giudice dovrebbe “tradurre” il significato del comportamento tra le due culture. Per intenderci, per una donna musulmana togliersi il velo avrebbe lo stesso significato sociale che ha per un’italiana togliersi la camicetta.
Ovviamente, come accennato, l'”orientamento culturale” dei reati non basta che sia proclamato, ma deve essere provato. Quindi tradizioni e consuetudini culturali, se invocati dalla difesa, devono essere documentati. Nel caso di Reggio Emilia la Cassazione giudica che questo non è avvenuto: la difesa si è basata su mere dichiarazioni degli imputati e dei loro congiunti e di una dichiarazione della prefettura di Vlore che però non è stata presentata corredata di alcuna certificazione di autenticità. Anzi, dall’istruttoria emergeva invece che “non di mere occasionali carezze si trattava, ma di vere e proprie fellatio”.
Non si ha notizia di molti casi giudiziari analoghi, anche all’estero. Negli Stati Uniti ci sono stati sicuramente almeno due processi per fatti simili: in un caso compiuti dalla madre, nell’altro dal del padre. Entrambi sono stati assolti, però era stato provato che si trattasse soltanto di baci anziché di succhiotti ed i bambini erano anche molto più piccoli (uno non aveva più di un anno, l’altro un anno e mezzo), cosicché non si è valutata una valenza sessuale negli episodi.
Un caso giudiziario simile riguardante albanesi ha avuto invece per protagonista una bambina: nel 1989 in Texas due genitori originari dell’Albania persero la potestà genitoriale perché il padre fu accusato di aver molestato la figlia per averne più volte accarezzato il pube pubblicamente, durante un evento sportivo della scuola. L’esperto culturale testimoniò che in Albania quello era un modo di mostrare affetto. Nonostante ciò i bambini vennero dati in affidamento e poi adottati.
Vari giuristi e antropologi hanno approfondito accademicamente l’argomento dell’usanza del bacio al pene del bambino. La costituzionalista Ilenia Ruggiu dell’università di Cagliari (ad esempio nell’articolo “Omnia munda mundis. La pratica culturale dell’„omaggio al pene” del bambino: uno studio per la cultural defense”) ha scritto pagine molto interessanti sul tema: l’usanza del cosiddetto “omaggio al pene” – ma chi la pratica non la chiama così – è una manifestazione di orgoglio genitoriale verso la mascolinità del figlio. È diffusa in varie culture: Telugu (India), Afghanistan, Nuova Guinea, Hawaii, Manchu (Cina), Cambogia, Vietnam, Corea, Thailandia, Rom, Turchia, Albania. Si può notare, incidentalmente, che, a parte quella albanese, nessuna di queste culture è di origine occidentale.
Proprio riguardo all’Albania, pare che non ci siano studi accademici su questo argomento, almeno noti a livello internazionale. Se questi studi esistessero e fossero stati conosciuti all’estero, forse l’esito del processo per i fatti di Reggio Emilia avrebbe potuto essere diverso, almeno parzialmente. Ed in effetti gli organi giudiziari che se ne sono occupati avrebbero potuto autonomamente, d’ufficio, indagare di più questo aspetto, ovvero della reale esistenza di quella tradizione, visto che viene ritenuto rilevante, e non considerare insufficienti le prove sul punto portate dalla difesa. Eventualmente avrebbe potuto essere nominato dal giudice come perito un esperto culturale (ad esempio un antropologo competente sulle tradizioni sociali albanesi). Nell’impostazione “culturalmente orientata” data dalla Cassazione, in questo senso questa tradizione, se esistesse, potrebbe essere assunta come parametro di giudizio.
Vladimir Kosturi, presidente di Illyria, associazione albanese in Italia (che ha sempre sostenuto le ragioni del padre, anche con diversi sit-in), in un’intervista rilasciata a Radio Radicale, in relazione al caso di Reggio Emilia ha dichiarato, riportando l’opinione della comunità albanese, che “la nostra tradizione è anche di baciare i nostri figli nelle parti intime del corpo”, in sostanza nello spirito di una manifestazione di amore più naturale e meno fredda tra genitori e figli rispetto ad altre culture, dove questa fisicità si è persa.
Quanto all’Italia, la Ruggiu, citando l’antropologo Antonino Colajanni, riferisce che “a livello fisico, in diverse zone, soprattutto del Sud Italia, era ed è ancora in uso che le madri diano un bacio sul pene del bambino. Ad esempio, nella Piana degli albanesi [così chiamata per la storica presenza di italo-albanesi] in Sicilia, il bacio sul pene dell’infante dato dalla madre poteva nascere da un moto di orgoglio, espletato per affermare «tu sei un uomo»”.
In generale tutti si possono porre interrogativi riguardo alla natura sessuale di certi gesti. Molti genitori italiani e probabilmente di tutto il mondo fanno foto al figlio neonato nudo o lo baciano sulle natiche. A chi verrebbe in mente di considerare di natura sessuale questi gesti? Ed il bacio? Quanti significati può assumere? Sicuramente non per forza di natura sessuale. Ed il bacio sulla bocca tra uomini? In Italia è considerata una pratica omosessuale, ma non così in altre nazioni.
La vicenda di Reggio Emilia, come detto, ha creato un moto di stupore nell’opinione pubblica italiana che ha avuto conoscenza della notizia. Molti italiani non hanno creduto nemmeno che possa esistere al giorno d’oggi un’usanza del genere in un popolo occidentale ed hanno pensato ad una bugia detta dai familiari per fornire una giustificazione all’uomo.
Chiudo con un aneddoto personale. Io stesso, nonostante una lunga esperienza come avvocato difensore di stranieri in Italia in processi penali, non avevo mai avuto conoscenza di questa presunta usanza in Albania e, relativamente al caso di Reggio Emilia, ero tra quelli che credevano che rientrasse tra le fake news “ad uso processuale” che talvolta testimoni interessati raccontano ai giudici per discolpare propri amici o parenti in processi di questo tipo.
Così un giorno, con tono incredulo per quella che pensavo essere un’invenzione, durante una chiacchierata nel viaggio in auto per andare ad un tribunale insieme ad uno dei miei tanti clienti albanesi ed a suo figlio, ho chiesto delucidazioni in merito: “Senti, X, sai che in un processo penale un tuo connazionale albanese accusato di aver fatto sesso orale al suo bambino ha dichiarato che in Albania è un’usanza normale per i padri baciare il pene dei figli piccoli?” Questo mio cliente albanese, un uomo equilibrato che vive e lavora da molti anni in Italia (e senza ovviamente alcun interesse diretto nel fatto di Reggio Emilia), mi ha risposto molto serenamente, con suo figlio maggiorenne che ascoltava il nostro dialogo dal sedile posteriore dell’auto.
Mi ha detto questo: “È vero. Io ho baciato il pene di mio figlio fino a quando aveva otto anni”.

Quel frogione di Mancini o dell’exceptio falsitatis

Quarti di finale di Coppa Italia. Napoli – Inter: 0 -2. Sarri – Mancini: 1 – 3. Pur mantenendo la stessa differenza reti-insulti (“frocio” e “finocchio” li contiamo insieme) il risultato della gara tra i giocatori è meno perentorio di quello del match tra i mister, ovvero tra l’allenatore di villaggio e l’allenatore da Village People, parafrasando le reciproche cortesie. In una partita tutta all’attacco, in cui quell’omaccione bruto e cattivo di Sarri si è macchiato del delitto di lesa mancinità, a ben ragionare l’allenatore dell’Inter è stato almeno quantitativamente più discriminatorio di quello del Napoli: checché (attenzione all’accento, non voglio querele) si dica, la costituzione afferma che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, certamente senza distinzione di “sesso”, ma anche di “condizioni personali”, e quindi pure di età. E l’articolo 11 del codice di giustizia sportiva è quasi onnicomprensivo nel definire i comportamenti discriminatori. Ma anche se non lo dicessero la più alta e la più specifica fonte giuridica, sembra logico che dare del “vecchio” (e in un certo senso anche del “cazzone”) sia discriminatorio; tralasciando il particolare che cinque anni di differenza tra l’uno e l’altro allenatore sembrano pochi per poter giocare al monello che canzona il vecchietto. Ma discrimina anche l’anatema manciniano “tornatene ad allenare in C”. Come dire, tu Sarri, parvenu dell’arte pedatoria, hai allenato anche in C (veramente old big dick ha fatto di peggio, avendo allenato anche in seconda categoria); io Mancini invece ho calcato soltanto stadi con bandierine filigranate e reti di seta, senza sporcarmi i mocassini in campetti di paese paludosi e diserbati a guidare dopolavoristi, giovani di poche speranze e quasi ex giocatori. Perciò ecco qui la discriminazione verso Sarri anche per “condizioni sociali”, sempre alla fulgida luce dell’articolo 3 della costituzione. Per inciso, la carriera degli allenatori di calcio in Italia ricorda un po’ per classismo quella dei militari in epoche neanche troppo remote. Un nobile rampollo iniziato alla vita delle armi partiva direttamente da ufficiale, anche se era un imbelle che non sapeva dare ordini nemmeno al suo cavallo. Per un giovane popolano ciò era impensabile: veniva reclutato nella truppa e, soltanto se aveva grandi doti di comando e una enorme dose di fortuna, forse col tempo riusciva a scalare la gerarchia e vestire l’uniforme da ufficiale. Per gli allenatori di calcio succede qualcosa di simile, ma invece della nobiltà conta la precedente carriera da giocatore. Se uno è stato un calciatore di altissimo livello, come allenatore sembra debba partire di diritto da “ufficiale”, cioè allenando subito al top. E nessuna regola può essere d’ostacolo: può farlo, ovviamente ogni riferimento non è casuale, anche se non ha ancora il patentino di allenatore di prima categoria o se nel corso dello stesso anno è stato tesserato con un’altra squadra. Del resto, come diceva Albertone nei panni del marchese del Grillo, “io so’ io, e voi non siete un cazzo” (o, eventualmente, non sei che un “cazzone”, come nel caso di Sarri). Se, invece, il neotrainer è stato un semplice calciatore, inizierà da allenatore-soldato semplice. E, come tutti gli aristocratici di questo mondo, un allenatore di sangue blu (o  blucerchiato, biancoceleste, rossoblù, nerazzurro… Sarà un caso che Mancini gira quasi sempre squadre con qualcosa di tendente al blu?) non smetterà mai di guardare con altera supponenza un suo parigrado plebeo che viene dalla gavetta. O, nel caso, dall’Associazione Calcio Sansovino. Passando dal discrimine al crimine, si sussurra negli ambienti sportivi e nei salotti letterari che la quasi assoluzione di Sarri sia stata dettata da un’analisi glottologica dell’uno-due “frocio-finocchio”. L’ardita nonché erudita elucubrazione del giudice sportivo Gianpaolo Tosel avrebbe avuto lo scopo di tacitare chi vorrebbe mandarlo definitivamente in pensione (a dir la verità ci sarebbe già da sedici anni, ma si sa, i magistrati fino alla quarta età sono obbligati a furor di popolo a donare alla comunità il loro evidentemente insostituibile sapere). Il nostro esegeta del diritto sportivo sarebbe quindi stato più sottile di quel che subito si era pensato leggendo la sentenza: avrebbe infatti fondato il mite verdetto sull’ambiguità, non sessuale, ma semantica. E l’epiteto contestato si presta davvero a varie interpretazioni. Innanzi tutto  per alcuni il termine “frocio” deriva da “floscio”. E floscissimo è in effetti il ciuffo sale, cacio e pepe del tecnico nerazzurro. Per altri l’etimo va trovato in “frogione”, dalle grosse froge. E nell’episodio incriminato il Mancio furioso è stato immortalato con narici dilatate e sbuffanti più di un toro impazzito. Per altri ancora con quel termine si indicavano i “f(e)roci” lanzichenecchi invasori di Roma, che nel prendersi il bottino di guerra sembra non facessero troppe distinzioni tra uomini e donne: e la compagine interista non è indubitabilmente nordica e feroce? Non è calata al sud a mettere a ferro e fuoco la porta del Napoli e a conquistare il San Paolo? Ma questo filo (filo)logico è solo un’ipotesi sul ragionamento sotterraneo del giudice. Nella motivazione ufficiale della sentenza Tosel afferma invece un altro principio giuridico, in realtà molto più spericolato: visto che Mancini è notoriamente etero, non c’è discriminazione. In altre parole, generalizzando la portata del principio, se si dice qualcosa di offensivo a qualcuno ma ciò che si dice non corrisponde al vero, non c’è illecito. Quindi se uno dice ad un altro “finocchio”, ma quest’ultimo non è foeniculum vulgare ma invece è ad esempio  phoenicius nobilis, tutto a posto. Interessante. Peccato che nel diritto penale esista un principio (articolo 596 del codice penale, pur limitato ad alcuni casi e con la recente depenalizzazione ancor più ridimensionato) secondo cui se si dice qualcosa di offensivo di qualcuno e si dimostra che questa cosa è vera, non c’è illecito: questo istituto si chiama exceptio veritatis. Ed è l’esatto opposto di quello applicato dal nostro giudice sportivo, che invece plasma questa originale exceptio falsitatis, per quel che è dato sapere principio inedito nei sistemi giuridici di ogni tempo e paese. In buona sostanza per il lesto Tosel chi dice il falso di qualcuno non merita attenzione e quasi nemmeno sanzione. Così, se applicassimo insieme e tirassimo un po’ le due exceptiones, nessuno verrebbe mai punito per illeciti contro l’onore: sarebbe scriminante – ma non discriminante – offendere dicendo il falso come lo sarebbe dicendo la verità. Ma in ogni caso, in tutta la querelle quello che ci guadagna alla fine è comunque l’offeso Mancini. E non perché è riuscito con i suoi piagnistei a destabilizzare per un po’ l’ambiente calcistico napoletano. Ma perché è la prima persona al mondo che è riuscita ad ottenere una sentenza che certifica che non è gay.

Omicidio Willy. La via del processo è lastricata di buone (preter)intenzioni.

La procura di Velletri nel caso di Willy Monteiro Duarte dopo qualche giorno ha cambiato l’imputazione da omicidio preterintenzionale a omicidio volontario aggravato dai futili motivi.
Ma che differenza c’è tra l’omicidio preterintenzionale e quello doloso o volontario o, come viene chiamato in altri ordinamenti, intenzionale?
Uno dei principi cardine del diritto penale è che conta quello che si è fatto ma anche quello che si voleva fare.
Nell’omicidio preterintenzionale (che va oltre l’intenzione, in latino praeter intentionem) il responsabile vuole soltanto far del male ma non vuole la morte della vittima, morte che però si verifica a causa dell’azione violenta, quest’ultima sì voluta.
Nell’omicidio volontario il responsabile vuole la morte della vittima oppure, anche se non ne vuole la morte, immagina e accetta la possibilità, il rischio, di ucciderla con la propria azione violenta.
La linea di confine quindi spesso è questa: nell’omicidio preterintenzionale la morte della persona aggredita non è né prevista né voluta dal responsabile, nell’omicidio volontario è prevista ma può essere non voluta.
La differenza si pone anche in termini di pena minima prevista per ciascun reato, nel rapporto di più del doppio tra l’uno e l’altro: l’omicidio preterintenzionale è punito con una pena base di almeno dieci anni di reclusione, quello volontario di almeno ventun anni.
Ipoteticamente però se fosse stata mantenuta una contestazione di omicidio preterintenzionale e i responsabili dell’uccisione di Willy avessero scelto il processo abbreviato e magari avessero ottenuto le attenuanti generiche prevalenti, non è impossibile che avessero potuto ottenere una pena finale di nemmeno quattro anni e mezzo. Pena che comunque non sarebbe stata scontata del tutto, con le agevolazioni che la legge prevede anche nella fase di esecuzione della pena. In nemmeno un paio d’anni avrebbero potuto essere liberi o semiliberi. Se poi, sempre ragionando per ipotesi, per qualche miracolo giudiziario (l’ottenimento di un’ulteriore attenuante) la pena fosse scesa sotto i quattro anni i responsabili avrebbero potuto addirittura non entrare mai in carcere.
Nell’omicidio di Colleferro, caratterizzato da una furia ingiustificata, poteva venire fin dall’inizio più di un dubbio che l’imputazione corretta potesse essere quella di omicidio volontario invece che preterintenzionale. Non è fuori luogo pensare che la pressione dei media e dell’opinione pubblica abbia contribuito a far cambiare in corsa una scelta giudiziaria “prudenziale”, come è stata definita dallo stesso giudice per le indagini preliminari che l’ha avvalorata.
Peraltro nel caso Willy per ora non è stato focalizzato da nessuno (ma si spera lo sarà nel prosieguo del procedimento) un altro aspetto giuridico che potrebbe avere una certa rilevanza, la cosiddetta “minorata difesa”, che si ha nell'”avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa”. Questa circostanza aggravante sembrerebbe non meno calzante all’omicidio in questione di quella dei futili motivi, già contestata.
Come ulteriore spunto di riflessione riporto la più recente decisione della corte di cassazione sulla materia (sentenza n. 11946/2020), in cui è stato deciso – in un caso abbastanza analogo a quello di Willy ma all’apparenza tutto sommato più lieve quanto al comportamento violento – che l’imputazione corretta era quella ben più grave di omicidio volontario: “Si configura il delitto di omicidio volontario – e non quello di omicidio preterintenzionale, caratterizzato dalla totale assenza di volontà omicida – quando la condotta, alla stregua delle regole di comune esperienza, dimostri la consapevole accettazione da parte dell’agente anche solo dell’eventualità che dal suo comportamento possa derivare la morte del soggetto passivo. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza del giudice di merito che aveva ravvisato il delitto di omicidio preterintenzionale nella condotta dell’agente che, eseguendo una presa al collo da dietro della vittima, aveva premuto con forza eccessiva, o comunque per un tempo superiore ai sette secondi, le ghiandole barocettoriali della stessa, così interrompendo l’afflusso di sangue al cervello e provocando l’arresto cardiaco).”
Rapportando il principio all’omicidio di Colleferro, sette secondi di strangolamento devono essere considerati meno pericolosi di venti minuti di pestaggio?
Quindi, al di là dei tecnicismi, la domanda fondamentale che ci si deve porre nel caso Willy potrebbe quasi apparire retorica (se saranno confermati in istruttoria i dati emersi finora): più uomini robusti, praticanti ed esperti di arti marziali, che picchiano per venti minuti un ragazzino, anche con calci alla testa, anche quando questo era a terra incosciente, non immaginavano che poteva morire?

La bilancia e lo Spada

“La lacuna c’è, anche quando esista una norma per rimediarvi, finché coloro che non hanno, in base a questa, il potere non provvedono effettivamente a reintegrare o sostituire l’istituzione caduta”. Mentre leggevo subito dopo i fatti su vari media gli articoli sul motivo dell’inerzia dello stato davanti all’aggressione di Roberto Spada, esponente di un clan mafioso fascistoide, verso Daniele Piervincenzi, giornalista di Nemo, mi è tornato in mente questo concetto di Santi Romano. Il pensiero, contenuto nelle Osservazioni sulla completezza dell’ordinamento statale, paradossalmente pubblicate in pieno periodo fascista, sottintende che, in parole povere, è inutile avere le leggi se chi deve applicarle non lo fa. La parafrasi altrettanto sempliciotta di questo principio la utilizzano spesso le forze dell’ordine per spiegare confidenzialmente che loro arrestano sì i delinquenti, ma poi i giudici, a volte evidentemente più azzeccagarbugli degli avvocati, glieli rimettono in libertà. Fino a qui siamo di fronte alla secolare distinzione tra le due facce della giustizia: toga e divisa, law e order, bilancia e spada. Ma mi ha fatto un po’ tristezza leggere quegli approfondimenti giornalistici paragiuridici – che i mezzi di informazione, come spesso succede, hanno poi scopiazzato uno dall’altro – secondo cui nel caso Spada lo stato era legalmente impotente. Ai sensi del codice di procedura penale non si sarebbe cioè potuto in alcun modo arrestare, fermare o sottoporre a misura cautelare questo tizio. Quindi non perché la legge non veniva applicata, ma perché proprio non c’era una legge che lo permettesse. Ma siamo davvero oltre il caso prospettato da Santi Romano? In realtà no, ci siamo dentro in pieno, perché la legge adatta per mettere le manette a Spada c’era eccome. Per fortuna dopo un po’ l’hanno trovata anche le autorità preposte. La legge giusta in effetti esiste quasi sempre. In Italia nessuno sa esattamente quante leggi abbiamo. Ci hanno provato in molti a contarle e ogni volta esce un numero diverso. Cinquantamila, centomila? Di sicuro tantissime. E tra così tante ce ne sarà pure una applicabile al caso concreto, no?  Nel caso Spada ce n’era probabilmente addirittura più d’una tra cui scegliere fin da subito. In merito a questa aggressione la contestazione delle sole lesioni (che, considerate autonomamente, davano poco margine all’autorità giudiziaria) era proprio il minimo sindacale. Roba da patteggiamento natalizio. Guardando appena intorno c’erano però la violenza privata, l’aggravante mafiosa, le misure di prevenzione, la normativa sulla detenzione di armi… Sì, perché il manganello fa molto coreografia fascista, ma, anche se in relazione a questo caso non l’ho ancora letto su alcun giornale, è un’arma impropria, che come tale va trattata. Per fortuna l’episodio è stato ripreso e divulgato e lo sdegno è salito. E a volte questo olia i meccanismi della burocrazia giudiziaria. Così un vigliacco (tra le altre cose) è stato assicurato alla giustizia. Non un duro. Uno che non ci assomiglia nemmeno a un duro. Perché colpire a tradimento un altro che ti sta parlando e poi inseguirlo e picchiarlo armato di sfollagente mentre barcolla e sanguina è da piccoli vigliacchi. Un duro invece è un cronista che ha il coraggio di andare nella tana dei lupi con in mano soltanto un microfono, non un manganello. Peraltro non mi pare di aver visto Spada provare a dare testate ai carabinieri che lo portavano via. Bene così. Giornalisti e programmi coraggiosi sono armi essenziali a favore della democrazia e contro le mafie. Del resto, come presagiva già Jules Verne, Nemo vince contro la piovra.